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Se l’Alto Adige fosse come il Donbass

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La guerra civile durava da più di settant’anni. Gli altoatesini non si rassegnavano all’italianizzazione forzata: nelle scuole, nei documenti ufficiali, nella toponomastica era vietato l’uso del tedesco. Essere cittadini di uno Stato democratico non li ripagava della perdita delle loro radici, della loro cultura, delle loro tradizioni. Per questo nel 2014 passarono all’azione proclamando le repubbliche autonome di Bozen e Brixen. Roma reagì duramente occupando la zona meridionale dell’Alto Adige, decisa a difendere i confini conquistati nel 1918. Si ebbero migliaia di morti e l’aiuto richiesto dai secessionisti alla potente Federazione austro-tedesca. Il seguito è noto. L’esercito federale, con una speciale operazione militare, qualche mese fa ha invaso il sacro suolo italiano, facendo rivivere una barbarie che ricordava le invasioni longobarde, unniche, ungare. Città rase al suolo, Rovereto ridotta a un cumulo di macerie, Trento semidistrutta (a cominciare dalla cattedrale di San Vigilio), il Veneto evacuato da popolazioni terrorizzate dai metodi degli invasori — massacri di civili, adulti, vecchi e bambini ,la gente ridotta a vivere negli scantinati per difendersi dai bombardamenti aerei e dai carri armati che non risparmiano chiese, ospedali, scuole etc.

L’Europa civile e gli Stati Uniti, giustamente, sono indignati: è la riedizione dell’invasione della Polonia ma, questa volta, a differenza del 1939, i paesi democratici non possono entrare in guerra, come sarebbe stato logico e doveroso, per fermare il nuovo Hitler. La Federazione austro-germanica, infatti, è una grande potenza, dotata dei più sofisticati armamenti nucleari: se un tempo c’erano persone che non volevano morire per Danzica oggi, con la minaccia dell’apocalisse nucleare, nessuno intende morire per dare un’altra solenne lezione agli austro-tedeschi. Meglio è fornire agli italiani tutto il sostegno economico e militare possibile in maniera che gli invasori non arrivino fino a Treviso, Padova Venezia. Intanto il conflitto comporta una crisi della produzione che rischia di precipitare il paese nel baratro di una recessione che si preannuncia dura e duratura. L’embargo sugli scambi con l’impero centrale fa lievitare i costi e molti imprenditori agricoli e industriali chiudono i battenti con la conseguenza di migliaia di posti di lavoro sacrificati e il drastico cambiamento del tenore di vita degli occupati. D’altra parte i profughi trentini (e presto forse, quelli veneti), stando ai giornali, ripetono con i partigiani d’antan: “siam contenti di morire ma ci dispiace”: non si può far finta di niente davanti alla violenza dei nuovi barbari che, con la loro aggressione a freddo, hanno calpestato il diritto internazionale, fondato sull’intangibilità delle frontiere e sul principio che i conflitti sociali, politici ed etnici sono ‘affari interni’ degli Stati.

Non può esserci pace, proclamano i leaders francesi, inglesi, statunitensi finché gli austro-tedeschi non si saranno ritirati da Bolzano e da Bressanone. Purtroppo, dal momento che non sembrano affatto intenzionati a farlo, la guerra è destinata a continuare con le sue ecatombi di morti e la distruzione di città che erano, talora, patrimonio universale dell’Umanità e che, in ogni caso, erano cresciute ed erano diventate moderne e confortevoli col lavoro e il sudore dei loro abitanti.

E tuttavia, cercando di arrestare l’avanzata dei barbari, gli Italiani non combattono solo pro aris et focis ma per valori che stanno ben oltre la patria e la nazione: la democrazia, la civiltà occidentale, il primato del diritto sulla nuda forza. Sono finiti i tempi in cui la politica voleva dire la sua in fatto di rapporti internazionali. Oggi quando si ricordano le ‘guerre dell’Ottocento’, se ne parla con superiore ironia.” Non siamo più a quel tempo!”, si dice. È vero, purtroppo, giacché grazie a statisti come Metternich, Talleyrand, Castlereagh,  quello romantico fu un lungo secolo di  pace (1814-1914) in cui le ragioni della Politica (dell’equilibrio e del bilanciamento di potenza) prevalsero su quelle del Diritto o meglio queste ultime  riuscirono a farsi riconoscere solo quando i mutamenti negli scenari internazionali non alterarono sostanzialmente il quadro europeo (v. il caso dell’unità d’Italia: il Lombardo-Veneto non fu più un ‘affare interno’ dell’Austria grazie alle vittorie riportate dal Regno di Sardegna ma soprattutto dalla Francia nella seconda guerra d’indipendenza).

Ma valeva proprio la pena farsi carico di una guerra lunga, spaventosa, che non accenna a finire, si chiedono gli Italiani sotto le bombe, vittime di una nuova invasione austro-tedesca, ancora più spaventosa di quella del 1943? E l’invocazione alla pace del Pontefice romano, Giovanni Paolo III non testimonia solo l’antica ostilità della Chiesa cattolica all’illuminismo e ai valori della ‘società aperta’ e la vicinanza a una cultura sostanzialmente autoritaria come quella austro-tedesca? I tetragoni paladini dell’Occidente accusano di cinismo quanti si pongono questa domanda. Per loro, la weberiana ‘etica della responsabilità, appartiene al passato’: oggi vale soltanto quella della convinzione:” fa quel che devi, avvenga quel che può!”. Il calcolo (meschino) dei costi della guerra. invece, ci riporta al “particulare” guicciardiniano, ai libri di bottega del tabaccaio e dell’albergatore. “Fiat justitia, pereat mundus!”:no, davanti ai ‘sacri principi’ non sono tollerabili esitazioni di sorta. Il dubbio diventa una colpa, il segno dell’appartenenza alla quinta colonna. Per i mujahiddin della   democrazia occidentale, l’analisi pacata degli eventi, la individuazione delle colpe, la ricostruzione storica sono lussi del tempo di pace: in guerra, bisogna stare da una parte o dall’altra ovvero scegliere i buoni contro i cattivi.

Nel 1914 Benedetto Croce, per aver espresso dubbi sull’intervento italiano nella Grande Guerra, venne apostrofato come von Kreuz. Guardando certi dibattitti televisivi sull’invasione austro-tedesca del Tentino-Alto Adige, si ha l’impressione che la stessa sorte sia riservata a quanti non si uniscono al coro “Bombardano Cortina! Oilà /dicon che gettan fiori. Oilà/ tedeschi traditori/ è giunta l’ora, subito fora/ subito fora dovete andar!”. Se poi bombardano pure Venezia, ce la prenderemo col destino cinico e baro ma intanto gli Italiani avranno dato al mondo una lezione degna delle Termopili (a questo punto, non guasterebbero gli squilli di tromba della Marcia trionfale dell’Aida).

Dino Cofrancesco, 6 giugno 2022