Partiamo da un fatto, incontrovertibile. Il 28 febbraio nel villaggio di Chupakhivka, nella regione di Sumy, un uomo di 62 anni è morto. Da innocente. Se ne stava nella sua Ucraina quando la Russia di Vladimir Putin ha invaso il Paese e ha messo a ferro e fuoco le città. Quel giorno Oleksandr Shelipov esce di casa e non torna più. Improvvisamente da un’auto carica di soldati russi in fuga, un sergente apre il fuoco e una raffica di kalashnikov lo uccide.
È questo, in sintesi, il capo di accusa di Vadim Shishimarin, il sergente 21enne di Putin, accusato dell’omicidio nonostante quella sua faccia da bambino. Semplice, e forse pure giusta, sembra anche la sentenza di condanna letta ieri dal tribunale di Kiev. Il soldato è stato dichiarato colpevole di crimini di guerra e condannato all’ergastolo. È il primo di questo conflitto. In fondo il giovane Vadim ha chiesto scusa alla vedova (“non posso perdonarlo”, replica lei), ha confessato le sue colpe, ha ammesso di aver ucciso Oleksandr. Cosa c’è dunque da discutere?
In teoria, nulla. Nella pratica si parla eccome dell’opportunità di iniziare questo procedimento ai danni di Shishimarin. Gli occhi del mondo sono puntati su di lui: il processo, iniziato il 13 maggio e conclusosi il 23 dello stesso mese, è uno dei più veloci del mondo. Ma è stato un procedimento “giusto”? A far sorgere dubbi sono questioni di procedura. Primo: nella sua confessione, il soldato ha detto di aver sparato perché quell’uomo era al telefono e, secondo uno dei suoi commilitoni, forse stava comunicando all’esercito ucraino la posizione dei russi. Secondo: Vadim sostiene di aver eseguito un ordine: “Ho premuto il grilletto per essere lasciato in pace, non volevo uccidere”, ha detto l’imputato, anche se, per la procura ucraina, ad emettere l’ordine non fu un suo ufficiale diretto e dunque non era tenuto a eseguirlo. Terzo: durante il processo non è stato possibile interrogare gli altri due soldati presenti con lui in auto, poiché rimandati in Russia nell’ottica di uno scambio di prigionieri.
Ospite a Quarta Repubblica, ieri il procuratore generale militare, Marco De Paolis, ha spiegato quali sono le normali procedure di un processo militare e quali possono essere le zone d’ombra del caso Vadim. “Un proverbio latino – ha spiegato – dice che quando le armi risuonano, il diritto tace. Normalmente questo genere di fatti viene giudicato quando le ostilità cessano”. I motivi sono i più disparati. Innanzitutto, celebrare un processo mentre esplodono le bombe può portare a prendere “giudizi non sereni” o comunque “inquinati dal sospetto della propaganda, anche quella in buona fede”. E poi stiamo parlando di fatti “molto complessi”, che non si possono liquidare con poche ore di dibattimento. Nel caso di Vadim, ad esempio, De Paolis ritiene manchino “molti elementi” come “gli ordini, le testimonianze dei superiori, il quadro operativo, il ruolo e la formazione del soldato”.
Il diritto penale italiano, e quello di gran parte dei Paesi occidentali, ritiene infatti il militare responsabile di un crimine di guerra solo ad alcune condizioni. Deve cioè essere accertato fosse pienamente cosciente del fatto che l’ordine del superiore fosse “manifestamente criminoso”. Tuttavia, aggiunge De Paolis, “la guerra è una cosa complessa e non si fa pacatamente e razionalmente. Ci sono delle esigenze molto rapide. A volte gli ordini non vengono spiegati nel dettaglio e i soldati non sempre possono rendersi conto“. Questo non significa sia lecito uccidere un bambino, una donna inerme o un civile disarmato. Ma “in questo caso, nella giustificazione del sergente c’è il sospetto che il civile stesse comunicando con qualcuno… Entriamo insomma in una logica molto complessa”. Chi è il nemico? Solo il militare in uniforme o anche chi aiuta il proprio esercito? Tecnicamente, assicura De Paolis, “se il civile abbandona la sua inoffensività e diventa offensivo, può diventare un nemico”. Vadim, assicura il suo avvocato, farà appello.
Giuseppe De Lorenzo, 24 maggio 2022