Eccola, in poche righe, la faglia di rottura radical chic con la tradizione classica comunista. Di cui chi scrive condivide meno di zero, ma che bazzicava ancora le fabbriche, parlava ancora di rapporti di produzione e salari, aveva l’ambizione di rappresentare la “questione operaia”, certo con ricette oscillanti tra il totalitario e il masochistico, ma insomma non la questione degli aperitivi arcobaleno davanti a “Che tempo che fa”.
Il radical chic non solo esiste, ma esprime la cultura dominante, dà le carte del dibattito, delle inchieste giornalistiche e probabilmente anche giudiziarie, e oggi il suo nemico principale è il somaro lombardo che si ostina a mantenere la nazione. È ancora peggio della sua caricatura, la prova la trovate ogni giorno su Repubblica.
Giovanni Sallusti, 18 aprile 2020