Forse esageriamo con l’utilizzo dell’espressione “radical chic”, mi dico a volte. È pur sempre qualcosa di codificato, di stilizzato, un conto è la superba radiografia effettuata nella Manhattan dei primi Settanta da Tom Wolfe, un conto sono le nostre piccole diatribe quotidiane, rischiamo di inflazionare una categoria in uno stereotipo.
Poi, arriva puntuale Michele Serra, e fuga tutti i miei turbamenti dubitativi: no, il “radical chic” esiste davvero, ed è più caricaturale nell’Italietta giallorossa di oggi che nella New York di allora. L’altro giorno, la spalla di Fabio Fazio che si atteggia a meditabondo intellettuale ha vergato la sua Amaca quotidiana su Repubblica a proposito della Lombardia. O meglio, contro la Lombardia. Ma no, non contro la Regione a guida centrodestra, il rubrichista debenedettiano non ha fatto polemica politica, legittima seppur di pessimo gusto davanti alle bare accatastate. No, lui è passato a insultare direttamente i morti, i lombardi tutti. Inanellando una serie di pre-giudizi su questa plebaglia borghese che pratica la volgare usanza di lavorare, i quali avrebbero fatto pensare a Wolfe di esserci andato leggero, con la descrizione dell’idiozia finto-colta radical chic.
Ecco come sono visti i lombardi dal sofà di Repubblica: “Il popolo del non si chiude, brava gente e però monoculturale, confindustriali lillipuziani, i magutt (manovali) bergamaschi tal quali i padroni delle acciaierie, lavoro lavoro lavoro”. Scolpitelo, questo periodo, perché è l’essenza del radicalchicchismo come ideologia d’odio, e tiratelo fuori ogni volta che ci dicono che i radical chic non esistono.
L’esordio paternalistico, il popolo brava gente irrimediabilmente ottusa (“monoculturale”, nella neolingua politicamente corretta di cui Serra è uno degli esponenti più elementari), che è l’anticamera di ogni fascismo, compreso quello dell’intellighenzia progressista, l’unico rimasto in vita. Il disprezzo dichiarato per la piccola e media impresa, quella che alza la serranda quando Serra addenta il primo croissant, quella dove il titolare è il primo dei lavoratori, l’ossatura della titanica laboriosità lombarda, “lillipuziana”, non ripulita, non ammessa ai piani alti e ovattati della finanza ipotetica che vive di triangolazioni con mamma Stato, genere De Benedetti o Elkann, per citare i “padroni”, come direbbe lui, dell’autore.
E poi, in un climax incontrollato e ascendente, il vero dogma di ogni radical-chic che si rispetti, la schifiltosità finalmente esplicitata per i ceti bassi, i poveracci, il “proletariato” lo chiamava quel Karl Marx che Serra e i suoi fratelli di classe fanno a gara a citare nei ricevimenti dell’editore, tra una contessa che ha il passatempo della beneficienza e uno speculatore di Borsa che predica contro i populisti: i “magutt”, dannate bestie da soma che lavorano invece che pensare alla rivoluzione.
Eccola, in poche righe, la faglia di rottura radical chic con la tradizione classica comunista. Di cui chi scrive condivide meno di zero, ma che bazzicava ancora le fabbriche, parlava ancora di rapporti di produzione e salari, aveva l’ambizione di rappresentare la “questione operaia”, certo con ricette oscillanti tra il totalitario e il masochistico, ma insomma non la questione degli aperitivi arcobaleno davanti a “Che tempo che fa”.
Il radical chic non solo esiste, ma esprime la cultura dominante, dà le carte del dibattito, delle inchieste giornalistiche e probabilmente anche giudiziarie, e oggi il suo nemico principale è il somaro lombardo che si ostina a mantenere la nazione. È ancora peggio della sua caricatura, la prova la trovate ogni giorno su Repubblica.
Giovanni Sallusti, 18 aprile 2020