Vittorio Sgarbi è un personaggio eccentrico, non classificabile in un’indole ordinaria, essendo da oltre 30 anni un esponente vulcanico della cultura italiana che non si è adeguato agli schemi precostituiti con cui ha avuto un rapporto anticonformistico di “eversione” nell’indisponibilità a farsi reclutare nel gregge belante. Coerente con se stesso non ha rinunciato dagli scranni parlamentari ad agire con esuberanza ed estro dialettico per invocare l’istituzione di una commissione di inchiesta che indaghi sulle degenerazioni conclamate di una parte della magistratura.
Sgarbi è stato allontanato di peso dall’Aula di Montecitorio con i commessi che hanno eseguito la disposizione intimata dal presidente di turno dell’Assemblea Mara Carfagna, che imputava al critico d’arte di aver espresso turpiloqui sessisti e accuse generiche di mafiosità all’ordine dei togati. Sugli insulti sessisti Sgarbi avrà modo di replicare nelle sedi preposte, ma in merito all’addebito rivoltogli di aver diffamato l’intera categoria dei magistrati, citando le censure autorevoli dell’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che definiva l’Anm un’associazione «tra il sovversivo e il mafioso», è doveroso dissentire sulla semplificazione accusatoria formulata dalle colleghe di partito dell’esponente forzista Carfagna e Bartolozzi.
Lo scandalo Palamara, accusato di corruzione ed espulso dall’Anm, esige anche un approfondimento politico perché dalle conversazioni, reperite sul cellulare dell’ex presidente del sindacato dei magistrati, è emersa una gestione farsesca della macchina giudiziaria, negatrice dei principi di indipendenza e di autonomia, che può provocare effetti dissolutori sulla credibilità dell’ordine giudiziario. Il magistrato dovrebbe essere un tecnico che applica le leggi adottate dal legislatore e non un interprete estroso che plasma l’orientamento giurisprudenziale in base alle convenienze di carriera o al pregiudizio ideologico.
Il quadro deplorevole che è emerso dalle conversazioni intercettate, tramite il trojan applicato sul cellulare di Palamara, non può esentare la politica, per anni “vittima” dell’ingerenza giudiziaria, da una ricognizione degli abusi commessi da una minoranza influente dei magistrati. Il marciume correntizio ha rappresentato una perversione di potere di un ordine precipitato nel caos che è organizzato in fazioni per negoziare incarichi e per accreditarsi nell’area politica progressista in funzione di candidature o dell’accesso ai vestiboli ministeriali. I magistrati dovrebbero perseguire il criminis e non istigarlo come nel caso del traffico delle poltrone, presso le Procure in cambio di utilità, gestite dalla regia di Palamara che, peraltro, nelle chat private accomunava il leader della Lega Matteo Salvini al letame – «c’è quella merda di Salvini» – esponendosi in un pre-giudizio da cui un magistrato dovrebbe essere avulso.
Dunque, quella che Sgarbi ha battezzato “Palamaropoli”, evocando la famosa inchiesta di Tangentopoli degli anni ’90 che terremotò il sistema politico, non può esimere il Parlamento da un esame delle aberrazioni che si sono consumate all’interno di un settore della magistratura il cui operato dovrebbe ispirarsi all’imparzialità.
I cittadini quale fiducia possono riconoscere ad un corpo che sconfina dal perimetro dello Stato di diritto, violando l’incarico di sorvegliarne l’integrità? I magistrati detengono il potere di incidere con le pene coercitive sulla libertà delle persone e indagarne le deviazioni di una minoranza, per estirpare il baco della corruzione, significa onorare il grande lavoro di tutela della legalità promosso dalla maggioranza silenziosa dei togati che meritano il ristoro di immagine attraverso la sanzione dei “colleghi” reprobi.
Andrea Amata, 30 giugno 2020