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Signora Murgia, sulle divise ha torto marcio

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Stare dietro agli interventi di Michela Murgia, che ha costruito la sua immagine con il rumore mediatico delle sue uscite piuttosto che con la rilevanza dei libri che ha scritto (praticamente insignificanti a detta di chi ha letti), non varrebbe sinceramente la pena. Se non fosse che la nostra ha individuato un target di riferimento ben preciso, una nicchia di mercato che con ostinazione tutta sarda, va ammesso, coltiva costantemente. La potremmo definire la nicchia degli ex giovani sessantottini e post-sessantottini, di coloro che, pur essendo spesso “figli di papà”, avevano preteso di fare la rivoluzione e che si sono poi ritrovati a fare laute carriere borghesi conservando però una adesione ideale, più o meno ipocrita, ai miti e ai riti della gioventù: dallo spinello, che perciò si vorrebbe ancora oggi “libero”, all’antifascismo un tanto al chilo e che non si preoccupa affatto di essere intollerante e “fascista” a sua volta.

Nella mitografia sessantottina, i militari e le forze dell’ordine rappresentavano la quintessenza di uno Stato che era rimasto fascista (per loro la Resistenza era stata la “rivoluzione tradita”) e che era sempre pronto a reprimere ogni forma di dissenso “proletario” con la forza. Uno Stato, manco a dirlo, alleato dei capitalisti di cui appunto gli uomini in divisa rappresentavano il braccio armato. “Polizia fascista”, “esercito fascista”:  espressioni che suscitarono la reazione vibrante di un Pier Paolo Pasolini ma che ancora oggi albergano, come una sorta di riflesso pavloviano, nell’immaginario di questa particolare genìa di sinistri. “Fate l’amore e non fate la guerra”, che era un bel programma forse per l’isola di Utopia ma che, calato fra “la feccia di Romolo”, cioè nella città terrestre, non significava altro che darla vinta ai peggiori regimi liberticidi che la storia abbia mai conosciuto (dalla Cina di Mao alla Cambogia di Pol Pot, fino alla Cuba di Fidel Castro e Che Guevara).

Storia (ingloriosa) passata, è vero. Eppure, siamo sicuri che l’altra sera, quando la Murgia ha detto in una trasmissione televisiva di essere “spaventata” nel vedere un uomo in divisa a gestire l’emergenza, in molti si saranno compiaciuti e istantaneamente avranno avuto un moto di adesione. E il che, in verità, la dice lunga sullo stato in cui ci siamo ridotti. E di come la vecchia talpa sessantottina abbia lavorato così bene da averci fatto dimenticare quel “principio di autorità” su cui solo la civiltà umana può svilupparsi. La divisa, infatti, ben altri sentimenti dovrebbe suscitare in una società normale, “civile”. Essa dovrebbe rappresentare l’autorità dello Stato, l’amore della Patria e quindi la coesione nazionale. In un rapporto duale, di reciprocità, con i cittadini. Che nell’autorità riconoscono la legalità certo, ma soprattutto e anche la legittimità e l’autorevolezza dello Stato (a maggior ragione di quello liberale che per quasi tutto il resto dovrebbe lasciare le briglie sciolte ai suoi cittadini).

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