Reportage

Sorprendente Angola. Terra di povertà, con la città più cara del mondo

Quaranta anni di guerra, inflazione alle stelle, lande desolate. Nelle zone rurali le tribù vivono senza il senso del tempo. E la Cina avanza

Angola reportage

Ci sono paesi che restano sempre un po’ ai margini della nostra ansia di conoscenza (per chi ce l’ha), che non sono arrivati a recenti ribalte dei media (quelle passate, ormai chi se le ricorda?) e che hanno vissuto la loro storia senza che noi ne avessimo coscienza. L’Angola, per me, è sempre stato uno di questi. Poco conosciuto e poco considerato (tranne che dalle società estrattive di petrolio e diamanti), etichettato come paese vagamente oscuro nei nostri offuscati ricordi della guerra che per decenni ha devastato il paese.

L’Angola è sorprendente.

In primo luogo, per aver sopportato 40 anni di guerra. All’inizio, una quindicina d’anni di guerra d’indipendenza dal Portogallo, scivolata poi, a partire dal 1975, in una guerra civile durata 27 anni, nel feroce e confuso scontro tra partito comunista (MPLA – Movimento Popolare di Liberazione dell’Angola ) e partito di centro-destra (UNITA – Unione Nazionale per l’Indipendenza Totale), uno sovvenzionato dal petrolio, l’altro dai diamanti. Da un lato il MPLA sostenuto da Cuba e URSS, dall’altro UNITA e il Fronte Nazionale di Liberazione spalleggiati da Stati Uniti, Cina e Zaire – ingaggiarono una corsa al potere senza regole che portò il MPLA a conquistare la capitale Luanda e a governare sino ad oggi.

Il divario tra ricchi e poveri

Altra sorpresa. Un paese comunista nella cui capitale svettano grattacieli delle più grosse compagnie petrolifere del mondo, delle industrie estrattive di diamanti e di terre rare, che spuntano in mezzo a disordinate distese di favelas. Dove masse di vagabondi dormono sulla spiaggia di Ilha, il lungomare di Luanda, accanto a lounge bar in stile st. Tropez dove businessman usciti da macchine nere si ritrovano a bere e fare affari. Il divario tra ricchezza estrema e estrema povertà è evidente, quasi esibito, in una voluta lotta per eliminare la classe media.

Altra sorpresa. Luanda è stata per anni, tra il 2015 e il 2018, la città più cara al mondo. Non ci crede nessuno, lo so (e so che ora andrete a controllare su internet) eppure è così. Più cara di Tokyo, di Hong Kong, di New York o Londra. Il costo dell’immobiliare alle stelle e una parossistica relazione domanda/offerta legata agli ultra-ricchi, stranieri e non (questi ultimi legati alla cerchia del Presidente Dos Santos), hanno determinato questo fenomeno impensabile. Alla fine, una pizza costava 80 dollari (ma un litro di benzina costa ancora solo 300 Kwanza, 30 centesimi). Ora il tasso di inflazione è alle stelle, e quando vado a cambiare 200 euro esco con un sacchetto della spesa pieno di banconote, in una fantastica vertigine da billionaire.

Un Paese sempre armato

40 anni di guerra hanno ovviamente distrutto il paese: oltre ad aver causato circa un milione di morti e quattro milioni di profughi, qualsiasi settore industriale è scomparso. L’agricoltura – che in questo paese avrebbe potuto essere una risorsa enorme – è abbandonata. La pesca ridotta ai minimi termini, e il turismo letteralmente inesistente (durante il viaggio non incontro nemmeno un turista, mi era successo solo in Camerun). Si sono mangiati o venduti anche tutti gli animali dei due parchi naturali del paese. Una guerra così lunga, e condotta come un’inesauribile guerrilla, ha lasciato una popolazione allo stremo. E mine disseminate ovunque (alcune sono ancora lí). La popolazione non ha avuto molte scelte: tanti sono scappati in altri Paesi confinanti, o si sono inurbati per sopravvivere.

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Ed ecco un altro aspetto sorprendente di questo paese: è poco popolato. Abituata alle infinite masse in movimento dei Paesi africani, alle metropoli sovraffollate, qui appena usciti da Luanda – dove comunque il traffico resta quello di una metropoli – si trovano solo villaggi sparuti, mercati polverosi affacciati sulla strada principale, e centinaia di chilometri senza anima viva. Le città capoluogo sono piccole cittadine di provincia: un centro coloniale con le casette basse dai colori pastello, qualche chiesa del ‘600 sopravvissuta a orrendi restauri, fortezze portoghesi e architetture art déco.

Le manovre cinesi

Anche qui, come ormai ovunque nel continente africano, i segni della cinesizzazione in corso. Porti, strade, commercio, tutto in mano loro grazie ad un know-how sperimentato: realizzazione di infrastrutture, nessuna imposizione culturale, nessuna interazione con la popolazione locale. A livello più basso si impossessano dei mercati e dei servizi quotidiani, a livello alto si comprano il debito pubblico, e di fatto l’Africa è loro.

Da Luanda andando verso sud attraversiamo immense foreste di baobab spettrali, un fiume verdissimo e placido, il Kwanza River, per arrivare poi ad una savana desertica e, ora che siamo al termine della stagione secca, grigia di polvere. Verso ovest, il deserto del Namib, che con le sue dune che affondano direttamente nell’oceano, continua per centinaia di chilometri verso sud, in Namibia, tra otarie e cormorani e relitti di navi lasciate arrugginire nelle onde della corrente fredda del Benguela.

Le debolezze del continente nero

Qui, ai confini con la Namibia, vivono gruppi etnici isolati e unici, staccatisi dal ceppo bantu e migrati verso sud nel corso di secoli. Semi-nomadi e pastori, sono le tribù Muhimba, Mumuhuila, Muhacaona, Mutua, Mucubal (il prefisso Mu significa popolo). Sono fisicamente molto simili tra loro e bellissimi come solo le popolazioni africane riescono ad essere. La superiorità fisica delle genti di questo continente mi lascia sempre a bocca aperta, e devo ripensare alle tesi di Jared Diamond (“Armi, acciaio e malattie”) o di Yuval Harari per convincermi di come sia stato possibile che i popoli dell’Africa – dove ormai senza alcun dubbio è originato l’uomo ed hanno dunque avuto il vantaggio di essere stati i primi abitanti del pianeta, e in più hanno assunto la forma umana più forte e bella – ebbene come mai non siano stati loro a conquistare il mondo, e siano invece stati conquistati e colonizzati (per la risposta leggete il suo libro).

Siamo ai margini del deserto del Namib, in territori climaticamente durissimi, che obbligano queste tribù a migrazioni stagionali con il bestiame. Durante la guerra, gli uomini qui percorrevano a piedi gli 80 km per raggiungere la frontiera con la Namibia per procurarsi il cibo e tornare nei villaggi. Ora la desertificazione e la difficoltà di raccolta hanno spinto molti membri di queste tribù a muoversi verso le città, ad inurbarsi, perdendo così il legame culturale con i gruppi di origine. Hanno abbandonato il modo di vestire e lo stile di vita tradizionali, e perso così le loro tradizioni. In compenso, ora ricevono un minimo di assistenza sanitaria, i ragazzini vanno a scuola, e possono iniziare a sognare una vita diversa.

Cosa ha frenato l’Africa?

Quelli che sono rimasti qui, che appaiono ai bordi delle piste di terra, provenienti da un nulla fatto di acacie e alberi di mopane dalle foglie a forma di farfalla, sono abitanti di una terra senza tempo, di una realtà che pare impensabile se confrontata con la nostra. Qui, ora, su questo stesso pianeta, coesistono mondi che nulla hanno in comune, se non l’umanità di chi li popola. E come, e per quale motivo, questi mondi hanno resistito ad un’evoluzione che ha coinvolto e travolto il resto del pianeta, me lo chiedo ogni volta che incontro queste popolazioni.

Le donne di questi gruppi etnici sono tutte a seno nudo, con parei colorati o griffatissimi annodati in vita. Li comprano al mercato, dove i cinesi hanno ormai conquistato il monopolio globalizzato delle stoffe – la savana ormai brulica di falsi Gucci, Dior e Louis Vuitton (una fashion week alternativa?). Bisogna osservare le acconciature e i gioielli per capire a che tribù appartengano. Sono le donne che conservano e perpetuano il codice estetico della tribù, gli uomini ormai hanno optato per jeans e magliette. E per whiskey e birra. Le acconciature di fango e grasso animale sono nere per le muhacaona, ocra per le muhimba. Le donne mumuhuila hanno in più dei vivaci copricapi di perline, che scendono sui loro altissimi collari fatti di polvere di pietra indurita e perline. Le muhimba hanno ancora le gonne in pelle di capra, che le fanno apparire come statuarie guerriere primitive. Tante in realtà sono davvero armate di arco e freccia, ma per la caccia a piccoli animali della savana. File di perline incrociate sul petto, cinture, collane, bracciali e cavigliere, le donne Mumuhuila, Muhacaona e Mucubal vanno da un mercato all’altro a barattare il poco che hanno: qualche frutto, latte di capra, un pollo – ma per vendere una capretta ci vuole la presenza di un uomo. Arrivano con pacchi e bambini, accompagnate da bellissime ragazzine già in età da marito (13-14 anni). Le mumuhuila sorridono, e come le muhacaona, non hanno gli incisivi, tolti per bellezza (come nella tribú Koma in Camerun).

Le donne Muhimba sono più schive, vivono nei loro villaggi, fatti di qualche capanna di fango e legno. Ora sono tutte riunite per un festeggiamento. A piedi nudi, arrivano da un nulla polveroso, le gonne in pelle di capra che ondeggiano nella luce abbagliante, i capelli acconciati in rotoli di fango, i ciuffi neri e crespi alle estremità sembrano mantelli. Sono completamente dipinte di ocra rossa, hanno ciondoli di osso al collo, e bracciali, cavigliere, pendagli, foulard, pennacchi di pelle. Ricordano le donne della tribù Hamer della valle dell’Omo in Etiopia, e forse da lí sono arrivate con lontane migrazioni. Ballano e cantano, sotto gli occhi appannati dall’alcool degli uomini e gli sguardi attenti di qualche donna Muhacaona. Bambini e ragazzini corrono ovunque, sollevando nell’aria calda treccine colorate e nuvole di polvere. Hanno sguardi fermi, diretti, chiedono soldi per comprarsi la birra – hanno già capito le leggi del turismo, probabilmente su suggerimento degli himba che vivono in Namibia, a poca distanza da lí, già abituati ai visitatori.

Fuori dal villaggio, le due sorelle Muhimba escono dalla capanna dove vive il padre, il Soba, capo villaggio. Altre due capanne appartengono alle altre mogli. Ogni moglie una capanna, equità della poligamia. Escono con i fratellini e con un paio di neonati in braccio, i loro figli. Sono due ragazzine, avranno 16 anni. Inutile chiedere l’età, non la sanno. Qui non ha alcuna importanza sapere quanti anni si hanno, o quanto tempo è passato. Non ha importanza perché il tempo qui non è una categoria del pensiero, è un’astrazione inutile in questa realtà dove conta solo il presente, immenso, esteso, circolare come il kyklos della natura. Queste ragazzine, mentre allattano i loro neonati, aspettano il ritorno dei mariti. Non si sa quando torneranno. Ore, giorni, settimane, dipende da dove si sono dovuti spingere per trovare qualche filo d’erba impolverato per gli animali. Non piove da anni. Aspettano senza avere idea del tempo, senza conoscerne la sua forza distruttiva, è questo il loro immenso vantaggio psicologico. E per questo forse sorridono serene, mentre ci osservano con calma stupita. Mi chiedo cosa sia la vita per queste donne, bellissime e forti, che vivono solo in un eterno presente, in una capanna in mezzo al deserto. Cosa sia per loro la felicità. Di sicuro, non è la nostra, e quale sia più facile da realizzare, in fondo me lo chiedo.

Luisa Bianchi, 22 novembre 2023