Al vaglio delle segrete stanze rosse, accanto alla candidatura fino ad oggi vincente del governatore dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini – spinto dai riformisti di Guerini e Lotti, inviso alla sinistra ma con più consensi nella base – di nome se ne sta facendo largo a sorpresa un altro, quello del segretario della Cgil Maurizio Landini. Portato avanti per ora dal “trio tentenna” Zingaretti-Provenzano-Orlando, Landini sarebbe per loro la migliore soluzione per cercare di riprendere in mano una base smarrita che ha preferito i grillini del camaleonte Conte, sempre più in versione Cola di Rienzo dell’estrema sinistra.
Gli ammiccamenti sono in corso da qualche settimana ed è il motivo per cui nella Direzione di venerdì scorso si è cercato in tutti i modi di allungare i tempi in vista delle primarie previste per il prossimo mese di marzo. Il Pd, in picchiata nei sondaggi, dovrebbe al contrario spalancare porte e finestre al prossimo congresso tornando alle primarie modello Veltroni. E invece cosa fa? Si limita a confermare la doppia fase immaginata per gli ultimi due congressi, che prevede la convenzione tra tesserati e poi solo successivamente primarie aperte tra coloro che hanno raccolto un numero di tessere sufficienti: un vero e proprio papocchio che in un momento topico come questo si poteva e doveva evitare.
Il politburo del Nazareno, che vuole autoperpetuarsi nonostante la sconfitta, pensa addirittura di modificare il regolamento nel senso che dalle Convenzioni dei tesserati escano solo due nomi per le primarie aperte, impedendo così che si candidi un De Luca di turno (forte del consenso tra i cittadini ma privo di una componente nazionale che abbia tessere in ogni regione) o un soggetto civico forte, perché privo di iscritti a sostegno. Così facendo si determinerebbero a tavolino il nome dei due contendenti.
E se davvero alle primarie andassero Landini e Bonaccini, sarebbero due i grandi sconfitti che, sia pure con mille pruderie, comunque ci stavano pensando: Andrea Orlando e Elly Schlein.
Il primo, definito “il piccolo Renzi del Nazareno”, alla fine non è stato voluto proprio dai suoi che lo accusano, neppure troppo velatamente, di aver favorito solo le sue ‘Relazioni Pericolose’ laddove c’erano posizioni di potere nel deep state e di aver tagliato le gambe ad un suo fedelissimo come Beppe Provenzano che aspirava a fare il ministro. Ma Orlando, che si considera un grande maestro, non vuole proprio saperne di essere superato dal suo allievo dando la sensazione alla propria corrente di un passaggio generazionale che considera del tutto prematuro.
L’altra sconfitta sarebbe l’attivista LGBT Elly Schlein. Non piace alle attuali correnti di sinistra del Pd che la considerano sempre concentrata sulle questioni di genere (“sono una donna, amo una donna”) che rappresentano il perno della sua opposizione, benché la Meloni le abbia già dimostrato di essere ormai più fluida di tutti, scegliendo per se stessa articolo e sostantivo maschile “il signor presidente del consiglio” vestita poi com’è con giacca anni 80 e pantaloni rigorosamente blu notte.
L’armata Brancaleone del Pd guarda ora con attenzione all’11 novembre, quando, all’auditorium di Roma, con un parterre de roi, e l’immancabile Giuseppe Conte, Goffredo Bettini – nonostante anni e acciacchi di ogni tipo resta sempre “l’enfant terrible” della sinistra italiana – presenterà il suo ultimo libro A Sinistra. Da Capo, approfondita analisi storica, sociale e politica della sinistra dal 900 ad oggi. Lanciando di fatto una sorta di nuovo manifesto progressista (possibile piattaforma al congresso del Pd) e riportando la sinistra ad occuparsi degli ultimi lasciati in fondo a beneficio di giochi di potere che hanno creato buchi oscuri come il Monte dei Paschi, nella complice indifferenza di tanti funzionari dello Stato come il direttore generale del Tesoro, oggi in uscita, Alessandro Rivera, che hanno strizzato sempre l’occhio a dirigenti piddini & Co.
Allineando socialismo e cristianesimo in un passaggio iniziale, Bettini riflette su come “nel confronto tra la FORZA e la DEBOLEZZA, la debolezza talvolta si fa forza e combatte per tornare a vivere”.
E parlando di enfant, questa volta prodige, resta da capire cosa farà Matteo Renzi. Magari proseguirà a bombardare dall’esterno il suo vecchio partito e a lanciare ciambelle di salvataggio a Giorgia Meloni in vista della disgregazione finale di Forza Italia, chissà se mirate solo a qualche conferma dei suoi fedelissimi, come Del Fante in Poste Italiane, o a qualcosa di più articolato.
E così come faceva Andreotti, cercherà di favorire due forni per arrivare ad una scissione tra la sinistra più estrema, che verrebbe rappresentata da Landini e Bonaccini, che comunque resta pur sempre un suo vecchio collaboratore. Mentre D’Alema, altro convitato di pietra nonostante i seggi avuti per Articolo Uno, finirà per stare sull’Aventino.
E Franceschini? Sta facendo Franceschini! Ovvero due piedi in una staffa naturalmente, pensando di lanciare il bravo sindaco di Firenze Dario Nardella, uomo ideale per mantenere lo status quo o, in alternativa, il rosso Amendola. Ma alla fine confluirà “as usual” sul vincitore.
Venghino Signori e Signore. Benvenuti allo spettacolo, mettetevi comodi che ne vedrete delle belle, a partire dalla desolazione e dallo sconforto del popolo di sinistra. Oramai il partito non c’è più.
Luigi Bisignani, Il Tempo 30 ottobre 2022