Esteri

Spari sulla folla in Bangladesh, la strage di cui nessuno parla

Migliaia di persone manifestano contro il governo. E la polizia apre il fuoco in piazza: almeno 120 vittime

Due giorni fa in Bangladesh la polizia ha sparato sulla folla che manifestava, soprattutto giovani, uccidendo centoquindici persone. I feriti? Non pervenuti. Sì, perché i nostri media (quelli che l’hanno fatto) hanno dedicato alla notizia solo un boxino nella pagina Esteri. Non è una novità. I direttori scelgono le notizie da enfatizzare (che so, i divorzi di Kamala, in questi giorni) in base a due criteri: 1. quel che ritengono interessi i loro lettori, 2. quel che fanno le altre testate (soprattutto). Sì, perché uno dei loro terrori è il “buco” in pagina. Da qui i media-fotocopia, cosa che, a ben pensarci, li rende tutti inutili.

La moda della sinistra americana – che è quella che comanda la narrazione occidentale – è attualmente il no al razzismo. Ma concentrarsi su un ospedale pediatrico ucraino centrato (forse) dai russi e fregarsene altamente di quel che accade in luoghi esotici che cosa è se non razzismo? In Sudan gli ammazzati sono milioni, ecchissenefrega. Un treno deraglia in India col suo solito abnorme carico di gente sopra? Normale. Alla Mecca la ressa e il caldo fanno stragi? Esotismo. E dire che il Bangladesh dovrebbe essere caro a quelli di una certa età. Esso è infatti il vecchio Bengala nella cui jungla si aggirava l’Uomo Mascherato, The Phantom di Lee Falk e Wilson McCoy.

La sua guerra di indipendenza dal Pakistan negli anni Settanta scatenò un mega-concerto tipo LiveAid organizzato da George Harrison, l’ex Beatle che scalò le classifiche con canzoni come, appunto, Bangladesh e il semibuddhista My sweet Lord (plagiato da It’s so fine di Carol King, come poi appurò il tribunale). Con quella guerra il Bangladesh (che vuol dire “Bengala libero”) si guadagnò due cose: l’indipendenza e il primato mondiale della povertà. Infatti, gli ammazzati dalla polizia protestavano perché il governo aveva riservato il trenta per cento dei posti di lavoro nell’amministrazione ai figli dei veterani di quella guerra, così da garantirsi la fedeltà di una notevole massa elettorale. I bengalesi capirono benissimo la manovra e scesero in piazza. Rimediandoci pallottole ad altezza d’uomo. Il governo addivenne a più miti consigli riducendo quel trenta al cinque per cento. Ma anche i poliziotti mangiano il pane governativo e il resto è storia.

Una storia, tuttavia, accecata perché molto probabilmente nulla sapremo degli sviluppi. I nostri direttori di testata, per i motivi anzidetti, sono troppo concentrati sulle disavventure di Fedez, sulle veline di Zelenski e quelle di Hamas. Credendo che tutti i lettori siano stupidi. Per fortuna che ci sono (ancora) i social, che i direttori anzidetti non frequentano, altrimenti saprebbero cosa davvero pensano i lettori. Siamo nella terra di accà nisciuno è fesso e il numero degli “apoti” (coloro che non la bevono, per dirla alla Prezzolini) aumenta a vista d’occhio. I sinistri e i loro seguaci starnazzano più degli altri – ed è l’unica cosa che sanno fare- e sono per questo più visibili ma la verità è che cresce lo stuolo di quelli che danno ragione a Israele, Putin e Trump. E che sanno che un giornalista (di sinistra) pestato da CasaPound non pareggia i danni fatti impunemente, e da sempre, da anarchici e centri sociali.

Anche i padroni dei media dovrebbero stare attenti al disastro in termine di calo di copie vendute verso cui stanno precipitando. Ma forse gestire aziende in perdita è un rischio calcolato, che val la pena pur di influire sul governo. Il quale, il nostro, ne è effettivamente intimidito.

Rino Cammilleri, 24 luglio 2024

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