Su questo sito abbiamo riservato a Gino Cecchettin un giudizio sincero ma deciso, a volte anche critico, pur tenendo conto del dramma che stava vivendo, come quando scelse di affidarsi ad una agenzia, di sbarcare in libreria o sostenne la figlia Elena nel voler accusare tutto il genere maschile per la morte di Giulia. Stavolta, però, bisogna dargli atto di aver trovato il coraggio di impartire una lezione a moralisti e guardoni della cronaca nera, avvoltoi che negli ultimi giorni si sono accaniti su Nicola Turetta, padre del killer reo confesso, crocifisso per aver cercato in carcere di evitare il suicidio del figlio.
Gino Cecchettin ha sempre avuto abbastanza chiaro in mente che il dramma lo stavano vivendo due famiglie. La sua, per la morte prematura di Giulia. E quella di Filippo Turetta, che s’è ritrovata dalla sera alla mattina un “bravo ragazzo” trasformatosi in assassino, capace l’11 novembre del 2023 di rapire prima e massacrare poi la giovane ex fidanzata. “Quello che come società tutti noi, nessuno escluso, dovremmo fare è aiutare un uomo che sta vivendo un momento di grande difficoltà”, ha detto Cecchettin al Corriere della Sera dopo aver ascoltato le intercettazioni dei Turetta. In quei momenti, in un incontro in carcere, il padre rincuorava il figlio parlando di “un momento di debolezza” («non sei stato te, non ti devi dare colpe perché tu non potevi controllarti») e invitandolo a laurearsi. Tante “fesserie”, come si scuserà in seguito. Ma necessarie a evitare “che Filippo si suicidasse”.
Il crimine, ovviamente, non sta nelle frasi di papà Turetta. Quando nel fatto che il dialogo privato tra padre e figlio, per quanto totalmente irrilevante dal punto di vista penale (Filippo è reo confesso…), sia comunque finito agli atti e da qui spiattellato, senza ritegno, sui giornali. “Io non giudico”, dice Gino Cecchettin. E ha ragione. Quelle intercettazioni non aveva senso pubblicarle. E non aveva senso farlo soprattutto a nove mesi dalla loro registrazione. L’insegnamento è valido: “È sbagliato accanirsi contro un papà che sta vivendo un momento di grande difficoltà”. Chiaro? Piccola precisazione: sarebbe il caso di farlo presente anche alla figlia Elena, secondo cui in quelle parole ci sarebbe stata una “normalizzazione sistematica della violenza”. Vabbè.
È un buon segnale, tuttavia, che oggi il Garante della Privacy abbia avviato un’istruttoria nei confronti di varie testate che hanno rivelato il contenuto del nastro. “La pubblicazione di conversazioni private – si legge nella nota – intercorse in un contesto di particolare delicatezza, quali i colloqui in carcere tra detenuti e parenti, vìola la normativa privacy e le regole deontologiche dei giornalisti”. È la conclusione degna? Non esattamente.
Qui i problemi sono due. Primo: ci si chiede per quale motivo quelle frasi siano finite agli atti dell’inchiesta. La Procura ha fatto sapere che non si è trattato di “voyerismo giudiziario”, ma di una mossa utile alle indagini: da alcuni scambi sembrava (sembrava…) che Filippo avesse omesso alcuni elementi nel corso dell’interrogatorio e non desse seguito alla suggestione del padre su una possibile incapacità di intendere e di volere. Lana caprina. Visto e considerato – peraltro – che mai sino ad ora la difesa ha ipotizzato di presentare istanza sulla stabilità psicologica del killer.
Il secondo punto riguarda invece la stampa. Che ai cronisti occorra il Garante della Privacy per ricordarsi che forse, ogni tanto, un po’ di auto-regolazione sarebbe gradita, dà il senso di come il nostro sistema (politico, mediatico e giudiziario) si sia ormai assuefatto all’orribile vizio di guardare dal buco della serratura. Catturare frasi, decontestualizzare, schiaffarle su un atto di indagine e infine farle trapelare sui giornali. Ci si scandalizza per Turetta. Ma la verità che s’è sempre fatto così. E gli editori ci hanno campato per decenni.
Giuseppe De Lorenzo, 5 agosto 2024
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