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Sto con papà Di Maio. Il problema semmai è il figlio

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Ciò che sto per scrivere può apparire un paradosso, ma sono serissimo. All’interno della maggioranza si sostiene che il ministro Luigi di Maio si debba salvare dal padre Antonio. Al contrario, sarebbe molto più utile per noi contribuenti salvare il padre dal figlio.
Provo a spiegarmi meglio. Un piccolo imprenditore che assume alcuni dipendenti a tempo in nero, che rimpingua in contanti le buste paga, pensiamo davvero che sia lo scandalo italiano? È illegale, certo. Ma perché una minimpresa si mette alla mercé di un possibile ricatto da parte di un suo lavoratore, se non perché, banalmente, non ce la fa a pagare il dovuto? Sì, certo, mentre scrivo queste parole sento milioni di grillini scandalizzarsi. Per quello sto con il padre di Di Maio. Ha cercato, per necessità, di sfuggire al fisco, alle regole, agli ingaggi, ai Durc, a milioni di regole e tasse che ci siamo dati pensando che fossimo tutti la Fiat, l’Ilva o la Montedison. Che, infatti, provano a scappare.

Sono i medesimi imprenditori che se ne inventano una più di Bertoldo per non pagare cartelle esattoriali accumulate durante la crisi. Le stesse che, passate in giudicato, il governo del figlio Di Maio non vuole condonare. Stiamo impiccando papà Di Maio per una piscinetta gonfiabile e per aver messo dei calcinacci non a norma in un terreno di dubbio catasto. Grave, certo.

Ma il peccato diventa mortale per il figlio. I rifiuti dei muratori diventano pericolosi come quelli di una centrale nucleare, perché per anni abbiamo fatto i fenomeni intransigenti sul ciclo dei rifiuti, e il verde, e il ciclo ecocompatibile e bla bla. E allora è chiaro che una carriola diventa il corpo di un reato. E la piscinetta? Non voglio pensare che permessi idrici, geologici e che autorizzazioni i nostri legislatori di ieri e di oggi hanno previsto. Quanto è stata alimentata questa bestia statalista che, dall’alto della sua supposta perfezione, non poteva avere alcuna pietà per chi si è arrangiato. Con meno regole e meno tasse, il papà di Di Maio non avrebbe con tutta probabilità avuto alcun problema. Non risulta che conduca la vita di Paperon de’ Paperoni. Anzi.

È uno dei tanti: a differenza di molti, forse della maggioranza, ha piegato la legge ai suoi costumi. Altri hanno chiuso, sono falliti, in alcuni casi ci hanno anche lasciato la pelle. Ma il dito sono le irregolarità, la Luna un paese che è diventato complicato: in cui nulla è lecito, tranne ciò che è previsto dal sovrano legislatore. È questa la bandiera di onestà onestà, per la quale stiamo incartando il babbo Di Maio. Dobbiamo salvarlo dall’orribile pregiudizio per cui, poche settimane fa, il figlio Di Maio ha cancellato dalle sue liste un candidato sindaco perché fotografato con un parente acquisito di un mafioso, da cui peraltro si era dissociato.

Ecco, dissociamoci anche noi da questo abominio: è assurdo pensare che Di Maio debba passare dei guai perché è socio della società del papà, perché si è fatto il bagnetto della sua piscinetta dell’Upim, vicino ad una costruzione forse abusiva e comunque non registrata, perché sua mamma è stata socia della medesima società contra legem perché dipendente pubblica. E così via. Vorremmo vivere in un Paese in cui non sia reato tenere una carriola in campagna, installare una piscina gonfiabile (se non per la sua bruttezza), in cui un’impresa, per assumere un operaio, possa pagare una paga giusta e zero tasse, in cui per aprire una finestra non si debbano richiedere cento autorizzazioni. Insomma, in un Paese in cui allo Sviluppo economico ci sia qualcuno che conosca il disastro di fare impresa, come papà Di Maio più che il figlio, che pensa di utilizzare i nostri quattrini per trasferirli ai dipendenti in nero del padre.

Nicola Porro, Il Giornale 4 dicembre 2018

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