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Stop al finanziamento dei quotidiani? È giusto

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Ma dove sta scritto che, per l’eternità, il Manifesto debba ricevere 3 milioni di euro l’anno? O Libero 3,7? O Avvenire, il quotidiano dei vescovi, 5,9? Sia chiaro: con enorme rispetto per queste e per ogni altra testata. Si tratta di denaro pubblico. Anzi, come diceva l’immensa Margaret Thatcher, “il denaro pubblico non esiste: esiste solo il denaro dei contribuenti”. Quindi sono soldi delle tasse degli italiani.

Prospettare il taglio dei finanziamenti all’editoria in una logica vendicativa (“scrivi contro di me? E allora niente soldi”) sarebbe certamente un errore da parte di qualunque governo: ma, depurando un’eventuale iniziativa in questo senso da qualsiasi retrogusto punitivo, si tratterebbe invece di una limpida e auspicabilissima riforma liberale.

Vale per i partiti, per i sindacati, per le confessioni religiose, per la stampa: occorre creare le condizioni affinché possano liberamente fiorire e prosperare, esprimersi e cercare consenso in una società aperta. Ma – al contrario – non c’è alcuna ragione per cui tutti i cittadini debbano essere obbligati a finanziare anche le opinioni che non condividono.

Se voglio la vita di un certo giornale, lo compro. Se mi piace un partito o un sindacato, mi iscrivo. Ma non vedo perché, con le tasse di tutti, debba esserci un balzello generalizzato e un sussidio (a volte perfino selettivo) nei confronti dell’una o dell’altra testata o organizzazione o associazione.

Tutto ciò, a ben vedere, non produce solo lo sperpero di soldi dei cittadini, ma anche una progressiva parastatalizzazione dei soggetti finanziati: più ricchi, certamente, ma meno liberi e indipendenti, aggrappati alla generosa mammella pubblica.

Daniele Capezzone, 15 ottobre 2018

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