Cronaca

Studiavo in 2 metri quadri: che rabbia quelle tende di vittimismo

La “protesta delle tende” da Milano a Roma e nelle città universitarie. Ma noi i sacrifici li abbiamo fatti (davvero)

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Petalosi ma cattivi, egoisti fino alla psicosi: casetta davanti alla facoltà e senza pagare, si requisisce, si pretende, che poi arrivano Schlein, Fratojanni e gli altri a sostenere la lotta. Studenti nelle tende da Milano a Roma, dal Politecnico alla Sapienza all’insegna della svendita mediatica: non hanno nessuna voglia di studiare come non l’avranno di lavorare, inutile mandarceli, stanno cercando l’esito opposto, l’effetto Di Maio: non saper fare, non fare, esibirsi, incassare. Attivisti minchiatici di tutte le risme. C’erano dubbi che questa Bernini aprisse “un tavolo”: apriteli, apriteli i tavoli, è tutto fumo negli occhi, è la coda di paglia di una destra a sinistra della sinistra, il mercato è drogato di suo e anche grazie alle politiche clientelari che assegnano alloggi abusivi a pregiudicati, centri sociali e irregolari che fanno da base elettorale. O, come diceva quell’assessore: “Io di questi mi devo occupare perché vanno tenuti buoni, no degli italiani”. Ma gli italiani, se sufficientemente mascalzoni, fanno comodo anche loro, sono compatibili anche loro. Poi arriva la bergamasca con la tenda che non lotta per “le politiche sociali” ma solo per la propria salvezza: subito raggiunta da nuovi accampati, il Politecnico come un accampamento, alla fine arrivano i rom e prendono il controllo della faccenda.

Negli anni Zero era lecita ogni genere di prostituzione mediatica per finire in televisione, ai reality, poi è stata la volta dei social coi “creatori digitali” che sarebbe farsi le foto a culo per aria, gli influencer cioè i piazzisti di ciarpame più o meno griffato. In breve anche l’influencer è già trapassato, un non-mestiere ponte, per il paese dei balocchi, per la solita politica. Del resto, se hanno fatto onorevole uno come Soumahoro…

Questi giovani che definire fannulloni non si può, perché sono oltre, questi aborti della volontà, nati non vivi, saprofiti per vocazione, non sostengono il trenino da Bergamo o Centocelle fino in ateneo: è sporco, non inclusivo, faticoso, affollato, bisogna levarsi presto, e dire che quelle carrozze sono piene di umanità come piace a loro, i dannati della terra, o così almeno dicono. Tende di ipocrisia al cui cospetto restiamo un po’ interdetti e un po’ increduli noi vecchioni, memori di antiche avventure universitarie per le quali scatta il viale delle rimembranze: quando studiavamo con un panino (e un bicchiere di vino, la felicità…), quando si viveva in due stanze come in una comune, quando i soldi non bastavano mai perché non c’erano ma si era felici e ci si laureava lo stesso, anzi proprio per questo. Ma le amebe calcolatrici ridono, a loro non interessano le nostre memorie e di certo non sono disposti a fare altra fatica che filmarsi. Comunque, se qui non dispiace, pure io, laureato appena dopo la caduta del Muro, figuratevi, non resisto e narro la mia storia in pillole.

Mio padre, piccolissimo imprenditore, subì una rapina a mano armata che lo scioccò e ci impoverì. Via da Milano, finimmo in un buco nero sul mare, nelle Marche natìe, ed era l’incubo davvero perché dei meno di mille residenti almeno la metà erano mafiosi a soggiorno obbligato per la scriteriata legge Pica, criminali che subito si portavano appresso le famiglie e qui proliferavano; gli altri erano o residenti abbrutiti, o disperati a vario titolo: per dirne una sola, Brenda, il trans che consolava Marrazzo e poi finiva massacrato, fu mio vicino di casa. Un altro lo chiamavano la Ballerina, era un nero dalla faccia contorta e caricaturale da Ministrel che col calar delle tenebre si metteva una parrucca ramata, le calze a rete, gli zatteroni e usciva a battere. Amici no, ma buoni conoscenti lo eravamo. Finché lui/lei sparì e la gente diceva: hanno ammazzato la Ballerina. Ma non era morto, lo avevano pestato a sangue, questo sì, per oscuri motivi mai chiariti ma che in quel giro sono come l’ossigeno, e un bel giorno me lo ritrovai sul balcone di fronte che ballava sulle note di “Sympathy for the devil” dei Rolling Stones con la parrucca ramata e tutto il resto. Una scena tra il pietoso e l’agghiacciante, in una primavera lugubre che non fioriva. Poi uscì e tirava un po’ la gamba, e la gente diceva: la Ballerina non l’hanno ammazzata ma azzoppata sì.

Fu la mia nuova vita di studente che dopo il primo anno alla Statale si ritrovò scaraventato per una infinita stagione all’inferno; da cronista di nera e di giudiziara sarebbe andata perfino peggio perché dovevo occuparmi di tutti i magnaccia, i mafiosi, gli spacciatori che la mattina vedevo in tribunale e la sera, non gradendo le mie cronache, venivano a cercarmi a casa, nel terrore dei miei. Se sono qui a raccontarla è perché mi proteggeva uno più alto in grado, un foggiano che aveva portato via la famiglia da Rozzano a seguito di alcuni conflitti a fuoco con pericolo per i figli. Aveva una pizzeria e io gli portavo i clienti, un cuore d’oro, a modo suo, che poteva proteggerti o frustarti col nervo di bue se gli stavi antipatico. O falciarti. Ma io sono vivo grazie a lui: i mafiosi di mezza tacca, ma pericolosi, entravano in pizzeria e si inginocchiavano, baciavano l’anello secondo i riti tribali della SCO e Lorenzo diceva: Massimo, il ragazzino, è amico mio. E tutti capivano. Aveva un fratello, su a Rozzano, soprannominato “due pistole” che ogni tanto veniva a trovarlo; e Lorenzo in certe notti da tregenda m’insegnava il mondo che non si impara all’Università e non si impara nei tribunali, mi spiegava che quando trovano le ossa di uno bruciato è perché vogliono farle trovare, che molti di più sono quelli finiti nell’aria e ci stanno i prodotti e i metodi per polverizzarli in modo che la polizia se ne disinteressi, perché è disinfestazione sociale ed è meno lavoro anche per loro.

Qui io mi laureai, a Macerata, che stava a 50 chilometri dal mio buco di 44 metri quadri spartito in 4. Una famiglia rumorosa e disfunzionale come può esserlo una che viene da una tragedia umana assoluta. Per la disperazione mi rintanavo a studiare in un sottotetto di due metri per uno, una cella che faceva rimpiangere il 41bis, sotto zero d’inverno, sui 40 gradi in estate. E a Macerata ci andavo quando potevo, poco, con una Alfasud verde ramarro, o tamarro, di quinta o sesta mano dove pioveva dentro in un modo misterioso, i pedali invasi da pozzanghere ma nessuna infiltrazione, nessun meccanico in grado di capire. Quando ero ricco, mettevo cinquemila lire di benzina e salpavo per Macerata. Calcolavo tutto, sapevo che non sarebbero bastate però tirando il più possibile in folle arrivavo a casa gli ultimi metri a motore spento, prosciugato, ma ci arrivavo. Per i casi più critici, tipo un esame da dare, avevo una bottiglietta riempita di super, il liquido rosso che poteva esplodere da un momento all’altro ma non mi importava.

Come non mi importava quando, nel pieno degli anni furibondi al Carlino, le bande locali di spacciatori o di falsi benefattori che rapivano i tossici e ne facevano schiavi calzaturieri mi volevano far fuori. E vidi di tutto, puttane segate in due o mangiate dai cani, femminielli crivellati da cento colpi di punteruolo o mezzi decapitati in un fosso. In 40 anni che manco, non ho smesso un giorno di rimpiangere Milano. Qui dove sto io non sono vivo, io sono un altro. E quando ci torno mi sento di rinascere e quando riparto dal finestrino del treno sono un fiore che appassisce e piange senza ritegno.

Non è stato possibile, le ho tentate tutte ma non avevo mezzi, aiuti, amici. Poi la fanno facile, ma perché non ti sei buttato, perché non ci hai provato? Sì, senza le cento lire in tasca e con due genitori da badare a vita. Potevo solo lavorare dove potevo, come potevo. E ancora mi spavento davanti alla vetrina di un’agenzia immobiliare: 20 mq 300mila euro, affarone; 18 mq 2500/mese affitto, imperdibile. Che faccio, metto anch’io una tenda in piazza della Scala? Mi do alla prostituzione sadomaso come quello della canzone dei Rolling Stones, “When the whip comes down”? Ma ormai è tardi, a quasi 60 anni non sono buono neanche per le perversioni. Però sono ancora qui che m’incazzo, che scrivo. E m’incazzo di più quando vedo questi cavallucci marini, questi celenterati woke ma perfidi come i “bambini viziati della democrazia”, irragionevoli con le loro tende vittimistiche ma strategiche, che sognano Bruxelles o almeno il Nazareno per continuare, a un altro livello, la loro vita in vacanza, da eterni parassiti.

Max Del Papa, 10 maggio 2023