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Superlega: chi s’indigna è peggio dei Paperoni del calcio

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Perché stupirsi se i club più ricchi d’Europa fanno un loro campionato del tutto autoreferenziale? La cosa era annunciata e, con la forza del potere, è stata decisa. Noi abbiamo i soldi, noi procediamo.

Dite che è macroscopica la contraddizione coi valori dello sport? Ma andiamo, ma dove sarebbero, dove resterebbero questi valori inclusivi, cavallereschi di cui ciancia l’avvocato Giuseppe Conte? È rimasta solo la ricchezza e la Superlega punta a cavare ancora più soldi, oceani di soldi, da tutte le parti, televisioni, internet, biglietti, merchandising, pubblicità al punto che i 50 miliardi di multe annunciate dalle varie Fifa e Uefa diventano irrilevanti. Lo sport, in esso segnatamente il calcio, non è più tale da almeno trenta anni e ai tifosi, che oggi si dicono sconcertati, va bene così. Va bene tutto.

E chi ha lasciato che diventasse così? Gli stessi che oggi si stracciano le vesti: gli Infantino della Fifa, che come i predecessori non ha mai visto lo strapotere finanziario, al limite del lecito, dei grossi club; i retori della politica, come Draghi l’europeista che si riscopre sovranista pallonaro. Come Macron che non ha fiatato quando gli sceicchi calavano a prendersi il Paris Saint Germain con tutto ciò che ne conseguiva. E su!

La Superlega è un progetto arrogante ma del tutto nell’ordine delle cose o, come suona fino dire, nello spirito del tempo e rifarsi ai valori decoubertiani è pura ipocrisia perché quei valori sono morti e sepolti. Come se fino a ieri il business non fosse stato l’unico motivo per dissestare i palinsesti calcistici tra anticipi, posticipi, differimenti, con le quotazioni lunari degli atleti, bidoni compresi, con la divinizzazione degli allenatori, con le giostre dei trasferimenti, con la onnipotenza di manager e maneggioni, con la trasformazione dei club in società per azioni, operazione promossa in Italia nel 1996 dal vicepremier Veltroni.

La logica, vogliamo dire, è stata sempre più quella del gigantismo locale e mondiale e se adesso quella logica è arrivata alla fisiologica conseguenza, quale senso, quale decenza avrebbe tutto questo agitarsi da farisei? Ma lo sanno o non lo sanno queste anime pure che uno come Ronaldo, che nella logica del dio denaro ci è nato, cresciuto e ci muore, prende 37 milioni all’anno dalla Juventus e 43 da Instagram e neppure gli basta? Ma non vedono che questi a trenta, trentacinque anni mettono in tasca duecento miliardi di lire all’anno eppure li peschi nelle scommesse, nelle truffe più o meno legali, comunque nei modi più discutibili di cercare altri soldi, di fare altri soldi? Lo vedevano, lo vedono e gli è sempre stato bene all’insegna dell’avidità, dell’arroganza oggi attribuita all’Andrea Agnelli della Juventus, il più convinto, il più risoluto sul torneo esclusivo dei superricchi debitamente sostenuto dalla banca d’affari Merryl Linch.

Il connubio tra alta finanza e sport d’elite è assoluto, questi istituti d’investimento piazzano le loro figurine nei consigli d’amministrazione dei club calcistici e li usano come trait d’union; cosa fatta capo ha, i tifosi se ne faranno una ragione, le squadre dei poveretti, si fa per dire perché anche un Sassuolo fa girare milioni, si adegueranno e se mai spingeranno per entrare nel gioco. La tracotanza del denaro può tutto e lo sa.

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