Speciale zuppa di Porro internazionale. Grazie a un nostro amico analista che vuole mantenere l’anonimato, il commento degli articoli tratti dai giornali stranieri.
In un partito democratico americano particolarmente diviso tra un’ala radicale, vivacemente solida, e un’area mediocremente centrista, le scelte di politica estera sono spesso sempre più determinate dai media main stream, e in particolare dal New York Times e dai suoi giornalisti più prestigiosi come Thomas L. Friedman.
Proprio quest’ultimo, assai conosciuto per le sue analisi sul Medio Oriente e per la sua immagine di un “mondo piatto” con cui ha descritto gli effetti di connessione e omogeneizzazione determinati dai tumultuosi processi di globalizzazione in atto, ha assecondato l’unità di repubblicani e democratici dopo l’11 settembre 2001, ha cercato di tirar fuori qualcosa di positivo dai pasticci in politica internazionale del trio Barack Obama-John Kerry-Hillary Clinton, ha combattuto frontalmente Donald Trump ma ha mantenuto un atteggiamento costruttivo verso Mike Pompeo, ed è diventato infine un importante punto di riferimento per la fragile amministrazione Biden.
È quindi interessante notare come in queste ultime settimane prima Friedman abbia criticato Joe Biden per i toni con cui questi accompagnava la scelta pur dal giornalista ritenuta perfetta di appoggiare massicciamente la resistenza ucraina, poi il quotidiano newyorkese abbia rivelato il ruolo dell’intelligence americana nel colpire i generali russi e l’incrociatore Moskva e abbia anche duramente replicato alla Casa Bianca che si lamentava delle fughe di notizie sulle azioni dei servizi segreti americani.
Sulle critiche a Biden e sulla difesa delle rivelazioni pubblicate dal quotidiano su cui scrive, infine, Friedman ha scritto il 6 maggio un impegnativo editoriale dal titolo “The War Is Getting More Dangerous for America, and Biden Knows It” (la guerra si sta facendo più pericolosa, e Biden lo sa). Interessante la prima affermazione nell’articolo friedmaniano: “the leaks were not part of any thought-out strategy”: le rivelazioni provenienti dall’interno dell’intelligence americana non facevano parte di una strategia della Casa Bianca. Erano dunque il segnale che tra Cia e Pentagono vi sono persone particolarmente preoccupate dall’escalation che Biden ha organizzato in Ucraina.
Fatta questa considerazione Friedman è tornato al suo ruolo di educatore dei democratici, utilizzando il trucco retorico che si usa con le persone anziane con difetti – come si dice oggi – cognitivi: di Biden mi ricordo bene nel 2002 – scrive – quando collaborando dal Senato alla guerra al terrorismo di George W. Bush diceva a noi giornalisti di non fidarsi degli “alleati” afghani e di aver sempre presente gli interessi di fondo degli Stati Uniti. Uno così – prosegue il giornalista del New York Times – non può lasciare che tutta la vicenda ucraina “end up in an unintended war with Russia”, finisca in una non programmata guerra con la Russia.
Probabilmente c’è qualcosa di vero in queste considerazioni, va tenuto presente però che siamo di fronte a due opposte disperazioni: quella di Vladimir Putin che sentendosi accerchiato dagli americani e spinto nelle braccia di Pechino, ha cercato una sciagurata prova di forza che non sa bene come si concluderà. Ma abbiamo anche a che fare con la disperazione di un presidente in carica umiliato dall’ingloriosa fuga da Kabul, sospettoso verso Parigi e Berlino, in caduta libera nei sondaggi che indicano come a novembre potrebbe essere non solo un’anatra addormentata come il solito, ma anche superzoppa.
Certe avventate dichiarazioni del presidente danno propria la sensazione di chi cerca solo una rivincita rispetto a chi lo sta umiliando. Da qui gli ambienti della Cia e del pentagono che cercano di condizionarlo spifferando sulle sue mosse, Friedman che cerca di educarlo e anche la stessa Janet Yellen, il suo segretario del Tesoro che lo avverte come con l’escalation delle sanzioni non rovina solo la Russia ma anche il resto del mondo compreso gli Stati Uniti.