Nelle cartine del mondo non sono segnate, eppure le rotte migratorie dei nomadi Fulani (o Peul, nella dizione francese) attraversano, immutabili nel tempo, il Sahel da nord-est a sud-ovest. Le masse nere delle mandrie di bovini dalle enormi corna bianche sollevano nuvole di polvere, a tratti spunta qualche cammello con appollaiato un bambino sulla gobba. In mezzo, gli uomini con il cappello a cono e un lungo bastone sospingono greggi di capre e pecore. Gli asini, carichi all’inverosimile di fagotti, calabase e bambini con agnellini in braccio, trasportano gli archi ricurvi delle intelaiature che sorreggono le tende di stracci – sembrano strani vascelli che scivolano rapidissimi dondolando nella polvere. I bambini più piccoli scoppiano in pianti disperati quando appare un bianco – ancora non ne hanno mai visti. Dietro, a piedi, le madri, il velo e i gioielli, allattano camminando. In una marcia inarrestabile e silenziosa, le carovane percorrono fino a 30 km al giorno. Si muovono alla ricerca dell’acqua – la desertificazione li spinge sempre più a sud – superando confini che per loro non esistono (e d’altronde è “liberi” il significato del nome che loro stessi si danno), in una migrazione ancestrale rimasta nei geni, come un’immutata impronta dei cacciatori-raccoglitori nomadici.
Tutto passa per Agadez
È seguendo queste rotte migratorie che, partendo da Agadez, nel cuore del Niger, vogliamo arrivare al luogo dove ogni anno, al termine della stagione delle piogge, i Wodaabe (o Bororo), una sub-etnia Peul, si ritrovano per celebrare il Gerewol, la festa dove – in assenza di Tinder – gli uomini trovano moglie.
Agadez ha il fascino del Sahara, pur essendone ai margini. Come se qui fossero state portate le immagini del deserto, un ultimo atto nostalgico dei tuareg che venivano dal nord prima di affrontare le savane del sud. Le case sono cubi di fango ocra e rosso, dalle ombre nerissime delle porte spuntano occhi e sorrisi bianchi di bambini e donne velate. Un dedalo di stradine di terra, spuntoni di legno dalle case, tetti merlati e decori geometrici – pura architettura del Sahel, come l’antica moschea, il cui minareto svetta con i suoi spuntoni e pare tremare nell’aria caldissima. Masse di bambini seminudi – kadò kadò (regalo, nella storpiata pronuncia francese) – tra le taniche per l’acqua gialle e verdi e i sacchetti di plastica blu che svolazzano nella polvere, immancabili elementi del paesaggio africano. Seduti nei tratti d’ombra sottile ai piedi dei muri di fango, gli uomini in turbanti bianchi e occhiali neri parlano tra loro, con quell’aria di attesa pacifica di chi non sa cosa sia il tempo.
Sono Tuareg, hanno visi affilati e la spada sul fianco. Siamo nel loro territorio, ai confini del Tenerè e del massiccio dell’Aïr – fino a qualche anno fa la rivolta dei Tuareg aveva reso queste zone inaccessibili, ora sono di nuovo tranquille, ci spiega il grasso sultano dell’Air (le uniche due persone sovrappeso che incontrerò in tutto il viaggio sono lui e il Ministro del turismo – qui il potere si mostra ancora con l’abbondanza), discendente di una dinastia turca che qui regna, in accordo con il governo, dal 1.500.
Da Agadez passavano, e passano ancora, le carovane in transito tra il nord e il west africa, tra Gadames e Timbuctù. Ma ora ci transitano soprattutto i migranti. Si raccolgono qui, vengono dal Sud Sudan e da vari altri paesi dell’Africa centrale e occidentale. Prima venivano trasportati sui pick up alla frontiera con la Libia, in 25 sul pianale, 500 dollari a testa, nel loro viaggio verso l’Europa, ma dal 2015 il traffico è proibito, e in Libia ormai è impossibile entrare, per cui i migranti si fermano al campo profughi di Agadez, dove varie Ong europee (di cui 3 italiane) li assistono. Il blocco del traffico umano ha determinato una crisi economica drammatica per i Tuareg – la guida (un tuareg) mi spiega le cose dal suo punto di vista – e quindi la popolazione locale si è dedicata ad altri traffici: armi, droga e l’accessorio banditismo. Non hanno molto altro da fare d’altronde, le miniere di uranio sono in mano ai francesi, ça va sans dire, i cinesi si occupano di commercio e delle poche infrastrutture, e altro in questa terra secca non c’è.
Partiamo da Agadez verso sud-ovest. Due pick-up carichi di militari – le gambe a penzoloni negli scarponi slacciati e una mitragliatrice montata sul pianale – aprono e chiudono la nostra carovana. La stagione delle piogge è appena terminata, a tratti il deserto si trasforma in una distesa verde pallido. Ritrovo quel senso di paesaggio prestorico, quell’immutabilità nello spazio e nella storia che è propria del paesaggio africano e che è esattamente il contrario della continua varietà a cui noi siamo abituati. Ogni cosa che si vede qui è solo il prodotto del ripetersi della necessità biologica: le capre, i carretti, i mercati, le capanne, le donne, i bambini, gli asini – un unico grande presente biologico che annulla in questa necessità ripetitiva ogni passato ed ogni futuro. È un’Africa reale con i bidoni gialli, le bottiglie di plastica e i sacchetti neri disseminati nei villaggi di fango, dove pare esistere solo la forza imperiosa e innata della sopravvivenza, della lotta per il cibo e alle malattie. E sorrisi infiniti, in una gioiosa accettazione del destino, una lentezza pacifica in ogni gesto, come se il tempo non fosse una categoria dell’esistenza, come se non ci fosse il domani, il futuro, i progetti, in un’assoluzione eterna di tutte le vite mancate, delle vite inutili, che fa di questo paese il rifugio ideale degli spiriti inquieti.
I clan Wodaabe
Scivoliamo nella savana, erbe gialle e acacie piatte sull’orizzonte. Nessun centro abitato fino al confine con il Mali. Donne fulane spuntano dal nulla con ceste in testa e il passo veloce. Alcune hanno dei fagotti grandi come materassi legati al sedere, come enormi palloni. Poi appaiono gruppi più numerosi, camion carichi di uomini in turbante, e intere carovane. Sono i clan Wodaabe che si stanno riunendo – sanno dove incontrarsi. Se lo sono comunicati al cellulare, ovviamente.
L’accampamento dei Bororo si estende per centinaia di metri. Sono arrivati con i loro animali, i carri, i letti con le ruote borchiate, le tende, le donne e i bambini, i cammelli e i dromedari bianchi. Nella luce lattiginosa di un sole che pare spalmato nel cielo, i capi famiglie si sono riuniti a gruppi a bere tè e a discutere, mentre i ragazzi dei vari clan si preparano al Gerewol.
Sono un’ottantina di ragazzi, dai 13 ai 20 anni circa, nudi fino alla vita, lunghe gonne scure serrate intorno al bacino da un panno chiaro. Non possono camminare ma solo fare brevi passettini, come geishe giapponesi. Devono apparire alti e magri (e già lo sono), eleganti e aggraziati. Nonostante la durezza della loro vita, è la bellezza il loro valore principale. Certo, non riesco a immaginare un posto meno indicato per essere ossessionati dall’apparenza, qui dove la desertificazione mette a rischio di sopravvivenza un terzo della popolazione del paese. Devono lottare contro la natura, e invece ora sono armati di specchietto e rossetto, trasformando questo angolo di deserto in un negozio Sephora. Ma trovo sublime questa rivalsa estetica su un ambiente di vita difficilissimo, quest’esaltazione della bellezza che in fondo risponde all’essenza profonda dell’uomo da cui è nata l’arte.
Sono raccolti in gruppetti, bevono il loro tè di erbe – che comprende la radice della pianta dei 40 uccelli, una droga che li aiuterà ad entrare in una sorta di trance e a resistere alla stanchezza – e si dipingono il viso di giallo o di rosso (ogni danza ha un colore) dopo averlo cosparso di una polvere d’oro. La polvere magica, la chiamano, viene dalla Nigeria nonostante il confine tra i due paesi sia ora chiuso. Poi il rossetto nero (usano perfino l’acido delle batterie per scurirsi le labbra) per far risaltare i denti bianchissimi, lucidati con un bastoncino, i disegni sul volto per sottolineare il naso sottile e la simmetria dei tratti, gli occhi bistrati con una polvere estratta dalla radice di una pianta, per tenerli spalancati e mobili. E infine i gioielli: orecchini, collane, piume, perline, copricapi di cauri e piume di struzzo sui capelli intrecciati, bracciali, bande di cuoio attraverso il petto, nastri, gris-gris (portafortuna) e croci d’argento. E non manca mai uno specchietto infilato nella gonna per controllare il trucco. Nel pomeriggio, alle piume si sostituiranno i cappelli a cono, e lunghe tuniche decorate copriranno le gonne di pelle di vacca, è la mise da sera.
La danza Yaake
Si allineano sul terreno e iniziano a cantare un’acuta litania monocorde, dondolando aggraziati. È la Yaake, la danza che ripeteranno tre volte al giorno. Roteano gli occhi per mostrarne il bianco, digrignano i denti e li sbattono per mostrarne la forza. Il bianco di occhi e denti è questo il principale criterio di valutazione della loro bellezza. Saltellano, tremano, battono le mani, si stringono e allontanano, sempre sotto gli occhi degli anziani che li incitano e li dirigono. Le ragazze dell’accampamento sono arrivate, hanno lasciato le madri a decorare le calabase all’ombra dei letti mobili, hanno indossato gli orecchini dorati e gli alti bracciali di perline, il pettine d’argento infilato di traverso nella banana di capelli, il velo nero a coprire il volto scuro, e si sono sedute in cerchio ad osservare i danzatori. Gli uomini dei vari clan, nelle loro tuniche colorate e scintillanti, i turbanti bianchi e le spade, si sono seduti nella polvere, o arrampicati sui cammelli, e circondano il terreno delle danze come in un teatro.
Tinder del deserto
La litania è ipnotica, la danza continua frenetica tutto il giorno, nonostante i 50 gradi di temperatura. I ragazzi devono mostrare la forza e la resistenza dei Wodaabe, questa è anche la festa della fertilità. Ma è anche un rito che ribalta completamente le concezioni occidentali di seduzione e di ruoli sessuali.
Alla fine della giornata infatti, due ragazzine che avranno 12 o 13 anni, entrano nel terreno delle danze, camminando un piede dopo l’altro, barcollanti, il capo reclinato su una mano, lo sguardo a terra, seguendo una linea tracciata con un bastone sulla terra rossa da un maestro di cerimonia. Timide e discrete, sceglieranno uno dei ragazzi short-listed (i vecchi ne hanno preselezionati 5 o 6). La ragazza indica timidamente con il dito uno di loro, il prescelto, che verrà presentato alla famiglia, non prima di averlo testato durante la notte. Nel rito notturno anche tutte le altre ragazze si mescoleranno ai danzatori, daranno un colpetto sulla schiena ai prescelti e se li porteranno nella brousse. Possono “testare” tutti quelli che vorranno, per sceglierne poi uno che potranno decidere di sposare al termine di un anno, sempre che non decidano di cambiarlo. E questo anche dopo sposate, in qualsiasi momento. E allora, sempre con la massima libertà, potranno tornare in famiglia o restare nella comunità del marito lasciato, lui si dovrà occupare dell’ex moglie fino a quando lei non troverà un nuovo marito. Insomma, un accordo di divorzio preregolato dalla comunità, altro che liti nei nostri tribunali. Tutti felici: gli uomini mi dicono che così possono avere tante mogli, le donne altri mariti, i figli crescono nelle famiglie allargate (tranne quelli nati a seguito delle notti del gerewol, perché non potendo sapere chi è il padre vengono cresciuti dalla nonna materna) e il tutto senza conflitti.
Nulla di più lontano dalla concezione islamica (ma anche dalla nostra cultura occidentale) di questo mondo dove gli uomini si truccano, si ingioiellano e si agghindano – metrosexuals ante-litteram (e forse anche un po’ drag-queens) – per piacere alle donne, dove le ragazzine scelgono i partner sessuali in totale libertà, dove vige una poligamia e poliandria che risponde alla più profonda natura umana. Un inno alla queer culture verrebbe da pensare, se non fossimo qui in mezzo al deserto con una tribù che difficilmente avrà riflettuto sulla fluidità di genere. E incredibilmente questa società così diversa rispetto ai canoni islamici resiste, forse perché nascosta in questo deserto aspro che ne conserva l’autenticità, forse perché nonostante molti Peul siano musulmani per loro la tradizione viene prima della religione.
Alla sera le donne tornano all’accampamento, ombre nere nel tramonto di polvere, gli uomini nei turbanti bianchi e neri si sparpagliano in gruppetti, le spade sporgenti dalle tuniche. I cammelli ripartono al galoppo verso il nulla, i cappelli a cono dei cavalieri dondolano al di sopra delle acacie nella polvere rosa della sera. Ripartiranno tutti alla fine del Gerewol, ogni ragazzo a seguire il suo percorso nomadico, la sua migrazione perenne alla ricerca di pascoli per i suoi animali, in compagnia forse una moglie provvisoria. In attesa che arrivi, anche qui, un Tinder del deserto.