Il brutale agguato e l’assassinio del giovane Willy meriterebbero silenzio e rispetto per il dolore dei familiari, da una parte, e poi una riflessione più generale, come scriveva Francesco Giubilei su queste pagine, sui valori e i modelli estetici e comportamentali predominanti nella nostra società, sull’ethos generale dell’uomo e dei giovani occidentali al tempo d’oggi. Quello di cui non ci sarebbe assolutamente bisogno è la speculazione su eventi così nefasti per fini politici oppure per fini commerciali. Purtroppo, come era immaginabile, i due tipi di strumentalizzazione, in particolare quella politica, si sono puntualmente verificati anche questa volta.
L’antifascismo tira
Ma un vero “fenomeno” è stata senza dubbio Chiara Ferragni, che in un sol colpo è riuscita a metterli insieme tutti e due: “due piccioni con una fava”, come suol dirsi. Condividendo un post del profilo Instagram @spaghettipolitics, la nostra più famosa influencer è scesa infatti direttamente, come mai prima aveva fatto, nell’agone politico, scegliendo la via di più facile successo: il problema di quella morte sarebbe la “cultura fascista” e razzista (Willy era di origine capoverdiana) degli aggressori; e la soluzione starebbe nell’istruzione, che a questo punto assumerebbe un vero e proprio carattere di “rieducazione” alle “virtù democratiche” del “buon cittadino”. Con quali esiti, non è difficile da immaginare. Perché Ferragni abbia compiuto questo passo, perché cioè l’abbia buttata in politica proprio lei che sembra avere tutti altri interessi, diciamo prima di tutto industriali e commerciali, è un fatto che non può avere che una spiegazione: oggi l’antifascismo tira, è cioè un brand di successo che, non solo ti accredita fra la gente che piace (la borghesia intellettuale e cittadina), ma ti fa “vendere” il tuo “prodotto” ad un pubblico vasto e maggioritario. Una sorta di alleanza fra la sinistra e il capitalismo, la ribellione e l’omologazione, che ha trovato i suoi albori negli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso con il successo delle t-shirt con l’effigie del Che o quello delle spille con impressa la foglia di canapa o il simbolo degli anarchici.
Educare, educare, educare
L’impressione è che da questa convergenza non ne esca vincente solamente – vivaddio! – il libero mercato, ma anche, per quanto addomesticata, una certa cultura mainstream che è parte, seppur diversamente, della decadenza dei valori occidentali di cui dicevo in apertura. Sarà un caso che questa è l’epoca storica ove più si parla di etica, e si mettono su persino istituzioni a sua garanzia, piccoli embrioni di uno “Stato etico” cosmopolitico, e meno etica diffusa ci sia? E non è forse la “medicina” stessa parte del problema che pretenderebbe di “curare”?
Così come una pericolosa aggravante del problema è quella che, con una irriflessa reazione, porta ad assegnare alla scuola e persino alle università il compito di promuovere l’etica e di “educare”: all’antifascismo, ai valori democratici, alla “sostenibilità”, e in sostanza alla lotta contro tutti i mali del mondo. Senza accorgersi che è un male pure questa presunta educazione: sia perché sottrae tempo e energie all’istruzione vera (lo studio della letteratura, della matematica, della storia, ecc.); sia perché pretende di trovare e dare soluzioni etiche pret-à-porter dimenticando il fondo tragico o inconciliato che presiede alla nostra esistenza e alla nostra costitutiva imperfezione e fallibilità. Ad esse ci si arriva possedendole in piena autonomia, senza balie, cioè avendole metabolizzate e con il proprio spirito critico: l’ideale della cultura come autonomia, cioè avalutatività, e come Paideia o Bildung, autoeducazione, è il senso stesso della nostra civiltà e solo lo studio dei classici può darcelo. A parte il fatto che non è dato sapere chi sarà mai il certificatore ultimo di ciò che è “antifascista” e “democratico”, tanto più che a volte, come è ben noto, è proprio l’antifascismo, con la sua intolleranza di fondo, ad essere un secondo fascismo per quanto inconsapevole.