Ah, ma quindi stamattina il Regno Unito esiste ancora? Di più, Oltremanica non sta andando in scena l’assalto ai supermercati per fare scorta di cibo onde affrontare l’imminente carestia, i medicinali nelle farmacie nonostante tutto si reperiscono ancora, il Pil britannico non è precipitato ai livelli dello Zimbabwe?
Non siamo ubriachi di primo mattino, o non più di quanto lo sia stato l’establishment italiano, europeo ed eurocratico per mesi, visto che aveva seriamente paventato i rischi di cui sopra ove mai la Gran Bretagna fosse stata così scellerata da dare veramente seguito alla volontà popolare, da trattare un referendum come un referendum, il momento supremo della democrazia.
Ma tanto non lo faranno, era la seconda linea d’attacco argomentativo dei difensori dello status quo. Tanto non sarà Brexit, come sosteneva all’indomani della consultazione un editoriale rilanciato dal Sole 24Ore a firma di Gideon Rachman, analista del Financial Times, innervosito perché gli zoticoni della brughiera inglese avevano votato senza tenere conto delle consegne dei suoi editori.
E invece, ieri sera poco prima di mezzanotte il primo ministro Boris Johnson ha annunciato “non la fine, ma un nuovo inizio”, l’uscita ufficiale del Regno dall’Unione Europea. La quale “con tutta la sua forza e tutte le sue ammirevoli qualità, in 50 anni si è evoluta in una direzione che non andava più bene per questo Paese”. La direzione di quel moderno Leviatano contro cui si schierò già Margaret Thatcher nel memorabile discorso di Bruges, fissando le coordinate dell’euroscetticismo britannico, liberale e liberista (altro che il “populismo” di cui continuano a blaterare i faziosi commentatori mainstream): “Non abbiamo ristretto con successo le frontiere dello Stato in Gran Bretagna, solo per vederle reimposte a livello europeo con un super-Stato europeo che esercita un nuovo dominio da Bruxelles”.