Diciamoci la verità: per chiudere tutto e farsi dettare l’agenda dalla mistica dei dati, non serviva certo Mario Draghi. Bastava Giuseppe Conte. Bastava addirittura, come ha spiegato bene Corrado Ocone a Quarta Repubblica, un algoritmo. Ma perché l’ex capo della Bce, anziché usare le sue competenze per lavorare a un piano serio di convivenza con il virus, sceglie la via del lockdown?
Una spiegazione, la più facile, fa riferimento a una sorta di “effetto emulazione” tra leader europei. Voleva chiudere Angela Merkel, chiuderà Emmanuel Macron, chiude pure Draghi. Nel Vecchio continente, se si esclude l’eccezione svedese, praticamente nessuno è stato in grado di trovare alternative intelligenti al confinamento a oltranza.
La seconda chiave di lettura è più politicamente maliziosa: quella delle chiusure è una clava che serve a creare un incidente diplomatico con la Lega, il convitato di pietra del governissimo. Quello che tanto Leu, quanto il Pd – e, in misura minore, i 5 stelle – vogliono far fuori prima possibile, per ricostruire un arco costituzionale che escluda i sovranisti.
Ma questa interpretazione non spiega perché Draghi, un uomo che conosce le realtà produttive, il costo economico e umano dei lockdown e, soprattutto, gode di un’indiscussa autorevolezza, accetti di prestarsi a un giochino a uso e consumo di alcuni partiti. È proprio per capirlo, che siamo tornati a rivolgerci alla nostra talpa, quella che ci aveva già spiegato per quali motivi dovevamo aspettarci che le chiusure sarebbero proseguite anche nel corso della stagione estiva, indipendentemente dai vaccini.
Ebbene, l’informatore, persona riservatissima ma esperta di trame di palazzo, ne è convinto: il vero “mandante” del lockdown alla Draghi è l’inquilino del Quirinale. Sergio Mattarella avrebbe assegnato un mandato preciso al premier: proseguire sulla linea che, con formuletta da burocrazia sovietica, in quegli ambienti viene definita “del rigore”. Volendo evitare il voto anticipato, infatti, il presidente si è trovato comunque costretto a offrire anche alla destra la possibilità di entrare in maggioranza. Anzi, per legittimare il governissimo, ne aveva bisogno. Poi, però, sarebbe dovuta scattare la manovra a tenaglia: invischiare il partito antisistema in un’agenda sgradita al suo elettorato, così da logorarlo. Perché alle urne, nel 2023, si dovrà tornare. E per chi vede come un anatema Matteo Salvini a Palazzo Chigi, è meglio andarci con un Carroccio sfilacciato e un centrodestra lacerato dalla competizione tra Lega e Fratelli d’Italia. Per questi motivi, l’operato dell’esecutivo di Draghi doveva porsi in sostanziale continuità con quello di Conte.
Cosa ci ha guadagnato, però, il premier? Facile: una solida copertura. Mattarella ha garantito che la corda concessa ai partiti sarebbe stata piuttosto corta. Draghi, insomma, ha ottenuto un’assicurazione contro spiacevoli incidenti di percorso, tipo quello accaduto a Mario Monti, al quale, improvvisamente, Silvio Berlusconi decise di staccare la spina. Ora, la politica italiana è in un equilibrio di Nash: nessun giocatore ha interesse a cambiare strategia e, comunque, il capo dello Stato è il garante ultimo della pace. Ecco perché la scelta dei ministri è stata compiuta in tandem da Draghi e Mattarella (anche se la Costituzione ne affida la nomina al presidente della Repubblica, mentre la “proposta” della rosa spetta al presidente del Consiglio).