Esiodo nella Teogonia chiama la divinità primordiale del Mare “Pontos”, un termine che richiama l’italiano “ponte”. Per i greci il mare era infatti un elemento di unione, era la distesa dinanzi al porto da cui salpare per scoprire il mondo e poi tornare in patria più “ricchi” nei denari ma soprattutto di esperienza. Come avrebbero voluto le vittime del Titan, il piccolo sommergibile distruttosi pochi giorni fa a 3.800 metri di profondità in prossimità del relitto del Titanic nelle gelide acque che bagnano il Canada.
Molti si sono interrogati sulle ragioni della tragedia, si sono soffermati sul destino avverso che ha colpito questi “esploratori” rievocando la maledizione del Titanic. Giorni di polemiche a cui si è aggiunto il delirio di Elly Schlein contro il massiccio dispiegamento dei mezzi di soccorso. Uno sforzo poi risultato purtroppo inutile, visto che il batiscafo sarebbe imploso poco dopo l’immersione, uccidendo l’intero equipaggio in un istante.
I paperoni che staccano assegni a sei cifre per viaggiare nello spazio o appunto negli abissi più profondi sono considerati l’ultima declinazione del turismo, ma sarebbe errato leggere tutto questo come “il capriccio” di chi ha tutto. Certo la logica dice che a tali profondità sarebbe prudente spingersi solo con robot teleguidati e non è certo chi scrive a poter esprimere un parere tecnico sulla missione o sul suo valore scientifico. Non può tuttavia sfuggire che la sete di scoperta, di sperimentare non si è mai placata nell’umanità. In caso contrario, a più di 2.600 anni dai primi versi cantati dagli aedi, non sarebbe ancora così carica di fascino la figura eroica di Odisseo, peraltro unico superstite tra i suoi compagni. Senza la perenne sete di conoscenza, di progresso non sarebbe nemmeno così attuale il messaggio delle Argonautiche: il poema di Apollonio Rodio, tre secoli prima di Cristo, racconta infatti lo spirito impavido con cui un gruppo di giovani, sotto la guida di Giasone, partirono alla ricerca del vello d’oro nella Colchide. Il mito vuole che il manto di quell’ariete avesse poteri magici; per Giasone conquistarlo significa avventurarsi nell’ignoto, trovare una propria strada per recuperare il trono da chi lo aveva usurpato e insieme scoprire l’amore di Medea.
Anche la sua è una missione dal sapore pionieristico, perché Argo è la prima nave mai costruita dall’uomo, tanto che a proteggere la chiglia e l’equipaggio dalle tempeste sono Era e Atena. Malgrado questo, Giasone non sarebbe riuscito a coronare l’impresa senza l’aiuto della magia di Medea né a trovare la strada del ritorno se lui e i suoi compagni non avessero ripetutamente vinto se stessi e superato i loro limiti. Con lui ci sono 50 tra i più valorosi, come i Dioscuri Castore e Polluce, il saggio Nestore, il poeta Orfeo con la sua lira, ai remi almeno per un tratto siede Eracle e al timone c’è Tifi, impareggiabile nel trovare la rotta tra le stelle. Eppure anche gli Argonauti naufragano prima di ripartire e appagare il desiderio di ritornare in patria, così come il procedere della scienza e delle sue scoperte è costellato di fallimenti.
Responsabilità, guasti tecnici ed eventuali imprudenze nel caso del Titan sono e saranno da accertare senza sconti. Ogni volta che l’uomo si spinge al limite dell’ardire o peggio lo viola, corre tuttavia il rischio di pagare con la vita sua o dei suoi affetti più cari. Accade anche a Giasone quando combatte contro i mostri scatenati dal re Eeta anche se sarà poi Euripide a intingere nel sangue della sua progenie le pagine della tragedia Medea. In sostanza, insegnano i greci, nessuno si può sottrarre al destino, nemmeno gli dei. Soprattutto quando l’uomo, come forse è accaduto quando si è imbarcato sul piccolo Titan, lo sfida con una discreta dose di orgogliosa tracotanza. Quella che gli antichi definivano hybris e a cui facevano seguire una punizione definitiva quanto il peccato commesso nel sopravvalutare le proprie forze.
Massimo Di Guglielmo, 26 giugno 2023