Nulla è peggio dell’antifascismo degli antifascisti, diceva Pier Paolo Pasolini qualche decennio fa. Ad oggi, la frase è più attuale che mai, soprattutto dopo la manifestazione comunista andata in scena a Milano, nella giornata di ieri, dove circa 500 manifestanti hanno sfilato per le vie della città. Si definiscono “una piazza antifascista, transfemminista, ecologista, antirazzista, antimilitarista e internazionalista, vicino ai popoli coinvolti nei molti conflitti in corso nel mondo”, si legge sui social. E ancora: “Una piazza contro le falsità di chi invece chiede la pace, avallando però un’aggressione militare che fa strage di civili e di chi sogna il ventennio, sostenendo una società omofoba, misogina e razzista”.
Insomma, è la solita manfrina sul razzismo. Dall’altra parte, qualcuno potrà pur sostenere il ventennio con assalti alle sigle sindacali, ma i cortei della sinistra antagonista finiscono sempre con lo stesso risultato: scontri e violenze. Saremmo noi ad essere poco democratici per capire che la loro lotta è in difesa proprio della democrazia e della libertà, ma le azioni di Forza Nuova non trovano molte distinzioni rispetto a quelle della sinistra autonoma. Né nei mezzi, né nei risultati.
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Anche ieri pomeriggio, infatti, un agente di polizia è rimasto ferito durante il tentativo di bloccare il corteo degli antifascisti, mirato a raggiungere piazzale Cadorna, dove era in corso un’altra manifestazione, questa volta della destra extraparlamentare. Un gruppo di circa 70 persone, esponendo striscioni e accendendo fumogeni, si è staccato contravvenendo alle indicazioni. A quel punto, le forze dell’ordine sono state obbligate ad intervenire con una carica contro i facinorosi.
Insomma, si tratta delle ennesime violenze poste in essere dalla sinistra comunista, ma che sembrano rispondere al solito doppio standard intollerabile. Se gli scontri sono causati da destra, allora sorge un pericolo per la democrazia; mentre passa (quasi) in sordina se i disordini arrivano dalla parte opposta. Aspetteremo invano estenuanti reportage televisivi, sempre attenti e pronti a scovare l’onda nera in arrivo, che poi si verifica puntualmente inesistente.
Si badi bene. Quando c’è violenza è doveroso condannare, qualsiasi sia il colore politico protagonista degli scontri. Nonostante tutto, fanno sorridere le continue richieste (che vanno avanti ormai da anni) a Giorgia Meloni di dissociarsi dal mondo postfascista, eversivo ed antidemocratico, quando dall’altra parte vengono applicate le stesse azioni, senza che nessuno batta ciglio.
Casi eclatanti furono le violenze di Napoli o Cremona, quando i centri sociali misero a ferro e fuoco le rispettive città, sempre in nome di una formula che, nel caso concreto, agisce da paradosso orwelliano: la liberazione. In nome della libertà, infatti, si danno atto ad azioni teppistiche, che arrivano fino ad aggredire le forze dell’ordine.
Ma è lo stesso odio che, nei cortei “Non una di meno”, ha portato i manifestanti a mettere in atto una serie di minacce contro la premier in carica, da eversione dell’ordine democratico. Si leggeva: “Meloni fascista, sei la prima della lista”. Oppure, ancora peggio: “Meloni fascista, ti mangio il cuore”. Insomma, vere e proprie intimidazioni nei confronti di chi viene eletto democraticamente, col 30 per cento di cittadini italiani che approvano la linea dell’esecutivo. Pare che siano proprio coloro che si travestono da “liberatori” ad essere i principali pericoli per la libertà. Un paradosso che Pasolini aveva già capito cinquant’anni fa, ma che non sembra essere stato compreso dalla sinistra di oggi.
Matteo Milanesi, 5 dicembre 2022