Transizione green? Vi spiego perché non vale la pena

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Quando si parla di Pnrr, la preoccupazione prevalente è di spenderli bene, spenderli tutti, i quattrini che l’Europa ci impresterà. C’è però anche un secondo problema, di cui si parla di meno, o meglio si parla in modo obliquo: per che cosa spenderli. La risposta canonica è: portare a termine le sei “missioni” indicate dall’Europa, dalla digitalizzazione alla transizione ecologica, dalle infrastrutture alla ricerca, dall’inclusione alla salute. Ma è una risposta convincente?

Forse non del tutto, per vari ordini di ragioni. Intanto perché forte è il rischio che gli enti locali siano chiamati a spendere pur di spendere, senza una chiara e previa individuazione delle priorità. In secondo luogo, perché non è detto che i costi futuri di mantenimento delle nuove opere (infrastrutture e personale) abbiano le dovute coperture. Ma soprattutto perché le due voci principali, digitalizzazione e transizione ecologica (circa 120 miliardi di euro), non sono esenti da rischi e criticità.

Sulla digitalizzazione, andrebbero prese molto sul serio le preoccupazioni, culturali e pedagogiche, che da qualche tempo sono emerse nel mondo della scuola (vedi ad esempio il manifesto “Insegnare contro vento”, firmato da insegnanti e illustri studiosi). Quanto alla transizione ecologica, credo che dovremmo affrontare di petto il dubbio che, pochi anni fa, sollevò Jonathan Franzen nel suo pamphlet E se smettessimo di fingere? (Einaudi 2020).

Lo riassumo brutalmente. Il riscaldamento globale, ammesso che sia imputabile prevalentemente alle emissioni di anidride carbonica, avremmo avuto qualche chance di contenerlo se avessimo cominciato ad agire con determinazione 30-40 anni fa. Ora non più. Ora è tardi, ora contenere il surriscaldamento anche solo di qualche decimo di grado ha costi enormi, che la maggior parte dei paesi inquinatori non ha la minima intenzione di sostenere, se non altro perché comporterebbe un drastico ridimensionamento del tenore di vita delle popolazioni “virtuose” (pensiamo, per fare giusto due esempi, alle conseguenze delle direttive europee in  materia di auto green e classi energetiche delle abitazioni).

In breve: perché fingere che sia ancora possibile raggiungere un obiettivo che è chiaramente fuori della nostra portata? Detto così, sembra un messaggio disfattistico, che spegne la speranza, e tutt’al più disturba gli enormi interessi, economici e politici, dell’establishment climatico e delle lobby green. C’è però un risvolto cruciale del ragionamento di Franzen: lo spaventoso costo-opportunità della “scelta climatica”, ossia del convogliamento di enormi risorse economiche nel tentativo (disperato?) di mitigare di qualche decimo di grado il surriscaldamento globale.

Che cos’è il costo-opportunità di una scelta? È il valore delle alternative cui si rinuncia per il fatto di aver scelto una determinata alternativa a scapito di altre. Se spendi 100 miliardi per fare A, rinunci a tutte le cose (B, C, D,…) che avresti potuto fare con quei soldi se non li avessi spesi per fare A. Ed ecco l’idea Franzen: “Una guerra senza quartiere contro il cambiamento climatico aveva senso solo finché era possibile vincerla. Nel momento in cui accettiamo di averla persa, altri tipi di azione assumono maggiore significato. Prepararsi per gli incendi, le inondazioni e l’afflusso di profughi è un esempio pertinente”.

Le alternative cui rinunciamo, in altre parole, sono le innumerevoli azioni il cui scopo non è fermare l’innalzamento delle temperature, ma fronteggiare le sue drammatiche conseguenze. Azioni che, dirottando la maggior parte delle risorse sul cambiamento climatico, non possono essere messe in atto risolutamente, efficacemente, e nella misura necessaria. La posizione di Franzen è interessante perché non è affatto anti-ambientalista (lo scrittore americano è da anni fra i più impegnati nella difesa dell’ambiente e nella tutela della biodiversità).

Quello che Franzen, con il suo piccolo pamphlet, ha provato a fare, è semplicemente di metterci una pulce nell’orecchio: siete sicuri che abbia senso concentrare la maggior parte delle risorse su un problema quasi sicuramente irrisolvibile, quando ci sono innumerevoli problemi ambientali, dal dissesto idrogeologico alla protezione delle foreste, dalla tutela della biodiversità alla gestione dei rifiuti, che possiamo affrontare con successo spostando i nostri investimenti su quei problemi?

Luca Ricolfi, www.fondazionehume.it

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