Nel suo discorso in commissione giustizia al Senato sulle linee programmatiche in materia di giustizia, il ministro Carlo Nordio ha radicalmente mutato rotta rispetto ai suoi predecessori degli ultimi trent’anni. Possiamo sin d’ora dire che se il Ministro riuscisse e realizzare il suo programma la riforma della giustizia attesa da decenni diventerebbe realtà. Soffermiamoci sui punti nevralgici del discorso accompagnandoli con alcuni nostri consigli.
I punti centrali della riforma
1. Intercettazioni
Il ministro ha in primis evidenziato che l’utilizzo delle intercettazioni telefoniche, ambientali, telematiche e mediante l’uso dei trojan è in Italia superiore rispetto alla media europea, ma il vero problema non è tanto la statistica quanto il fatto che oramai lo strumento delle intercettazioni, da mezzo di ricerca della prova, si è trasformato in mezzo di prova. Intercettazioni, ha inoltre evidenziato il ministro, spesso “fatte sulla base di semplici sospetti” nei confronti di persone spesso nemmeno indagate e in “blasfema” violazione dell’art. 15 della Costituzione, senza la cui tutela non è possibile parlare di civiltà giuridica. Per questi motivi il governo prende l’impegno di riformare profondamente questo tema.
Sul punto, riteniamo di consigliare al ministro di abrogare la legge n. 7/2020, quella che convertì in legge il decreto-legge n. 161/2019 (governo Conte II, ministro della giustizia Bonafede). La possibilità di utilizzare i trojan nelle intercettazioni fu introdotta dal D.Lgs. n. 161/2017 (governo Gentiloni, ministro Orlando), che tuttavia ne circoscriveva l’utilizzo ai soli reati di associazione a delinquere di stampo mafioso e terrorismo. Il decreto-legge Bonafede estese invece tale possibilità anche ai reati contro la Pubblica Amministrazione. L’applicazione pratica è stata devastante, con telefonini e pc di centinaia di migliaia di persone continuamente spiati attraverso virus appositamente installati all’insaputa del malcapitato, con violazioni inaccettabili della sfera privata. Consigliamo al ministro di abrogare la riforma Bonafede e semmai tornare a quella Orlando, con un mutamento sostanziale: prevedere la inutilizzabilità di qualsiasi tipo di intercettazione (non solo quelle effettuate con i trojan) – anche in sede di richiesta di rinvio a giudizio – qualora queste non siano suffragate da ulteriori, precisi e concordanti elementi oggettivi.
2. Garantismo processuale
È uno dei punti maggiormente trattati dal ministro, che ha citato sia il brocardo latino “latius est impunitum relinqui facinus nocentis quam innocentem damnari” (“meglio lasciare impunito un colpevole che condannare un innocente”), sia il pensiero del grande Francesco Carnelutti, secondo il quale “il processo penale non serve solo ad irrogare la pena ma è già esso stesso una pena”. Sul garantismo Nordio ha chiarito esplicitamente che esso si fonda su due capisaldi che il governo intende implementare: la presunzione di non colpevolezza, secondo cui occorre evitare di sottoporre ad indagine un soggetto se non solo in casi di presenza di gravi elementi di colpevolezza, e la certezza della pena, dove certezza “non significa sempre e solo carcere” ma rendere effettiva la pena per tendere alla concreta rieducazione del condannato, “che costituisce un cardine costituzionale del nostro processo penale”. In merito a questo argomento il ministro ha altresì chiarito che il governo intende porre un limite agli abusi della custodia cautelare, definita “surrogato temporaneo dell’incapacità dell’ordinamento di mantenere i propri propositi”.
Di provvedimenti precisi il ministro non ne ha annunciati, ma ci teniamo a suggerirgli una nostra proposta: limitare le ipotesi di custodia cautelare in carcere a sole tre tipologie di reati: associazione a delinquere di stampo mafioso, terrorismo e reati commessi con l’uso delle armi. Oggi (in realtà da sempre) la situazione è quella che la misura cautelare del carcere è applicabile per buona parte di quei reati che prevedono una pena base non inferiore a due anni di reclusione, quindi con un ambito di applicazione molto vasto. È pur vero che essa costituisce extrema ratio, ma nella realtà nessuno controlla questo requisito, neanche il tribunale in funzione del riesame. Per tutti gli altri reati occorrerebbe invece privilegiare – solo se strettamente necessario in funzione della sussistenza di concrete esigenze cautelari – l’applicazione delle misure cautelari meno invasive, quali ad esempio il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa o dove si presume sia stato commesso il reato, l’obbligo di firma oppure quello di dimora, facendo diventare extrema ratio la misura cautelare degli arresti domiciliari, da applicarsi solo quando risultino oggettivamente impraticabili le altre misure meno afflittive.
3. Obbligatorietà dell’azione penale
È l’argomento più importante trattato dal ministro, che non ci è andato certo per il sottile. L’obbligatorietà dell’azione penale consiste nel dovere di procedere ogni qualvolta il Pm venga a conoscenza di una notizia di reato, e ciò per garantire il principio di uguaglianza tra i cittadini. In realtà, ha sottolineato Nordio, “questa si è convertita in un intollerabile arbitrio”, per cui il Pm può così “indagare nei confronti di tutti senza rispondere a nessuno”. Un tale sistema “conferisce alle iniziative, e talvolta alle ambizioni di alcuni magistrati, per fortuna pochi, una egemonia resa più incisiva dall’assenza di responsabilità in caso di mala gestione”. Dunque, il ministro si è posto l’obiettivo di superare tale obbligatorietà, riforma che però necessita di un procedimento di revisione costituzionale e dunque di tempi più lunghi. La ratio della riforma sta nel cercare di evitare che i Pm, invasi da decine di migliaia di notizie di reato, utilizzino l’obbligatorietà principalmente per scopi politici (facendosi pubblicità) tralasciando i reati che invece affliggono il comune cittadino. È noto che ci siano procure che concentrano le loro risorse soprattutto per perseguire i reati contro la PA archiviando i delitti comuni. Nordio non lo ha detto, ma sul tema possiamo consigliargli di sostituire l’obbligatorietà dell’azione penale con il criterio delle priorità, vale a dire l’obbligo delle procure di perseguire quei reati che verranno annualmente indicati dal Ministero della Giustizia sentite le Procure Generali distrettuali, il Csm e il Cnf.
L’intervento su carriere e Pa
1. Separazione delle carriere
Qui Nordio è stato perentorio. Se con il vecchio codice di procedura penale, quello del 1930, era ragionevole avere Pm e Giudice nel medesimo ordine giudiziario, il nuovo codice del 1988 – che ha trasformato il processo penale da inquisitorio ad accusatorio – conferisce al Pm il ruolo di “parte”, dunque non può più appartenere allo stesso ordine giudiziario del Giudice che ovviamente “parte” non è, anzi si staglia al di sopra delle parti ed ha l’obbligo di essere terzo ed imparziale.
Il ministro ha dunque proposto che il Pm appartenga ad un ordine diverso da quello del Giudice, ma anche questa riforma necessita di una revisione costituzionale visto che l’art. 104 della Costituzione parla di un solo ordine giudiziario. Cartabia è già intervenuta su questo punto, consentendo un solo passaggio dal ruolo requirente a quello giudicante e viceversa nei soli primi nove anni di carriera (consentendo altri passaggi anche più avanti ma solo da Pm a Giudice civile e da Giudice civile a Pm, per dirla breve), ma ciò probabilmente non è sufficiente a garantire la piena attuazione del codice Vassalli entrato in vigore nel 1989, il quale ha introdotto il principio di parità tra accusa e difesa, poi costituzionalizzato all’art. 111 della Carta. Su questo tema crediamo che, qualora non si riuscisse a modificare la Costituzione, una concreta separazione delle carriere possa avvenire anche per legislazione ordinaria (come ha fatto la riforma Cartabia) ma occorrerebbe stringere ulteriormente le maglie e consentire il passaggio di funzioni una sola volta, entro i primi cinque anni dall’ingresso in magistratura, senza eccezioni successive.
2. Reati contro la PA
Nordio ha denunciato espressamente come un sindaco e un assessore si trovino nel terrore di non poter agire legittimamente per paura di essere indagati in ordine al reato di abuso di ufficio, con la conseguenza di vedersi interrompere per sempre la carriera politica per poi, nella stragrande maggioranza dei casi, risultare assolti. Il ministro ha sottolineato che negli anni i rimedi adottati sono stati peggiori del male, come ad esempio l’introduzione infausta dei reati di concussione per induzione e di traffico di influenze illecite, entrambe fattispecie vaghe e “prive del principio di tassatività”. Qui la proposta del ministro è quella di abrogare le norme troppo invasive degli ultimi anni.
Sul punto consigliamo di intervenire anche sulla legislazione concernente lo scioglimento dei consigli comunali per infiltrazioni mafiose, le cui norme oggi in vigore sono fin troppo giustizialiste e fondate su sospetti aleatori. È sufficiente una generica informativa della prefettura, con una istruttoria svolta in assenza di reale contraddittorio, per vedersi sciogliere giunta e consiglio comunale, salvo pronunce riabilitative espresse nel merito da parte della giustizia amministrativa che arrivano solo dopo anni. L’attuale legislazione in materia di scioglimento di giunte e consigli comunali per presunte infiltrazioni mafiose è il frutto di un uso politico e sproporzionato dell’antimafia, che oramai è divenuta un partito politico a tutti gli effetti. Il nostro consiglio è di modificare le norme attualmente in vigore consentendo lo scioglimento solo come extrema ratio e a seguito di un preventivo e necessario accertamento in sede giurisdizionale (sia essa amministrativa o penale), eliminando l’attuale impianto illiberale in cui l’accertamento in sede giurisdizionale è solo eventuale ed interviene solo dopo l’adozione del provvedimento di scioglimento.
In buona sostanza, in linea generale, il ministro ha sottolineato l’importanza del principio di sussidiarietà nel diritto penale, che negli ultimi tre decenni era stato ampiamente dimenticato. In pratica il diritto penale dovrebbe intervenire solo quando strettamente necessario, mentre da Tangentopoli in avanti è diventato un grimaldello in mano ad alcune procure per combattere gli avversari politici.
“Verso una giustizia liberale e garantista”
Tre ultimi consigli, di cui il primo riteniamo essere particolarmente decisivo se si vuole davvero andare verso una giustizia liberale e garantista.
1. Introdurre una norma che vieti alle procure di impugnare le sentenze di assoluzione dell’imputato pronunciate ai sensi del primo comma dell’art. 530 c.p.p. (perché il fatto non sussiste, non costituisce reato o l’imputato non lo ha commesso), garantendo così – in modo effettivo – il garantismo sostanziale e di rito. Sul punto si era già espressa negativamente la Corte costituzionale, che con sentenza n. 26/2007 dichiarò la incostituzionalità parziale della Legge n. 46/2006 (Legge Pecorella) nella parte in cui questa impediva all’accusa di impugnare le sentenze di proscioglimento dell’imputato, adducendo che in tal modo era stato violato il principio di parità tra accusa e difesa di cui all’art. 111 della Costituzione.
L’ostacolo può oggi finalmente essere superato dopo il recepimento da parte dell’Italia, con D.Lgs. n. 188/2021, della direttiva Ue n. 343/2016, la quale – tra le tante altre cose – sollecitava gli Stati membri ad assicurare che l’onere della prova circa la responsabilità penale dell’imputato gravi esclusivamente sulla pubblica accusa e che la pronuncia di colpevolezza debba essere accertata al di là di ogni ragionevole dubbio. Se dunque il Giudice pronuncia sentenza di assoluzione ai sensi del primo comma dell’art. 530 c.p.p. (e lo deve fare ogni qualvolta non si sia raggiunta la soglia dell’oltre ogni ragionevole dubbio di cui all’art. 533 c.p.p.), per quale motivo il Pm deve godere della facoltà di impugnare la sentenza di assoluzione se non è riuscito dopo un intero grado di giudizio ad offrire prove sufficienti a superare la soglia dell’oltre ogni ragionevole dubbio, gravando su di lui – e solo su di lui – il carico dell’onere della prova? La parità tra accusa e difesa di cui all’art. 111 della Costituzione non può essere letta, in nessun caso, prescindendo dai principi generali del favor rei, della presunzione di non colpevolezza e dell’onere della prova a solo carico dell’accusa;
2. in tema di digitalizzazione, sul quale il ministro ha parecchio insistito, ci preme ricordare che il processo penale è a sola tutela dell’imputato e risponde al principio di immediatezza (la difesa dell’imputato deve poter produrre un qualsiasi documento cartaceo in un qualsiasi momento prima della fine dell’istruttoria, senza barriere di natura digitale), dunque la digitalizzazione – che pure è importante per la modernizzazione del Paese e che negli ultimi due anni ha aiutato molto il lavoro degli avvocati – non può mai tramutarsi in pronunce di decadenza per le attività della difesa, che devono poter essere esercitate senza particolari obblighi digitali;
3. Infine, in materia di impugnazioni, suggeriamo al ministro di eliminare i filtri di ammissibilità (cioè la pronuncia di inammissibilità dei ricorsi per mere ragioni formali o di giudizio prognostico, a prescindere dal merito) soprattutto nei ricorsi per Cassazione, in modo tale da rendere effettivo il diritto di difesa, che con lo strumento dei filtri – per lo più di matrice pretoria – è stato parecchio ridimensionato. Sul punto occorrerebbe rivedere anche la riforma Cartabia nella parte in cui introduce la inammissibilità del ricorso in appello per “aspecificità dei motivi”; riteniamo infatti si debba tornare alla legislazione antecedente al 2017 che consentiva l’impugnazione anche con riserva di motivi, da depositarsi in qualsiasi luogo si trovassero l’imputato o il suo difensore, anche attraverso il mezzo postale. Le esigenze di modernizzazione non possono mai prevalere sui diritti di difesa dell’imputato. Il garantismo deve investire il processo penale a 360 gradi, senza lasciare zone d’ombra.
Paolo Becchi e Giuseppe Palma, 10 dicembre 2022