L’altro elemento che aumenta la temperatura nella già composita società americana è l’opa, lanciata sulla sinistra, da parte della cosiddetta identity politics. Ovvero, quell’ideologia secondo cui le minoranze (di tutti i tipi), avendo subito delle ingiustizie, ora debbono vendicarle. Per intenderci: è a quella fonte che attingono i demolitori di statue di Cristoforo Colombo, che denunciano lo sterminio dei nativi da parte degli europei, o i fanatici che si danno alla guerriglia nei campus universitari, pur di togliere la parola a relatori di cui non condividono le idee. È un fenomeno preoccupante, perché l’identity politics ha ipotecato tanto la sinistra radicale, quanto quella moderata. È per questo che Biden s’è sentito in dovere di dire che i “veri” neri non possono che votare per lui, o di sostenere che il Paese è affetto da “razzismo sistemico”. Il Partito democratico crede che, visto il crescente peso demografico delle minoranze etniche, soffiare sul fuoco significhi fidelizzare uno sterminato bacino elettorale – a patto che si riesca a portare alle urne gli “oppressi”, tra i quali trionfa l’astensionismo. Ma un tornaconto sul breve termine può essere un gigantesco svantaggio strategico in prospettiva.
Se una nazione come gli Stati Uniti sprofondasse in una spirale di vendette politiche delle minoranze su quelli che considera i propri aguzzini; o se, peggio, precipitasse in una guerra civile, come si presenterebbe alla prova della guerra fredda con la Cina? Quello scenario che, volenti o nolenti, caratterizzerà il futuro prossimo? Il Dragone arriva alla sfida (nonostante la pandemia, per quel che ne sappiamo ora) in gran forma. Gli Usa la reggerebbero, senza una società coesa? Può un battito d’ali di pipistrello a Wuhan far crollare una presidenza a Washington? Può una razzia in un negozio di New York cambiare per sempre l’ordine mondiale?
Alessandro Rico, 3 giugno 2020