Tutte le bufale degli “esperti”

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È ormai operativa la «task force» Rai contro le «fake news», guidata dal direttore di Rainews, Antonio Di Bella: «Un comitato scientifico di virologi, medici e uomini di scienza che permetta di valutare volta per volta le molte informazioni che arrivano in maniera tumultuosa sulle nostre scrivanie relativamente al coronavirus». Per carità: un po’ di pulizia, male non fa. Ne abbiamo sentite tante: le tisane calde che ammazzano l’agente patogeno, l’ibuprofene che lo rende più aggressivo, le spremute d’arancia che prevengono il contagio, i cani che lo propagano… Eppure, siamo proprio sicuri che gli esperti si siano guadagnati sufficiente credibilità?

La domanda è legittima, perché dall’inizio dell’emergenza, i competenti hanno detto tutto e il contrario di tutto. Il primo aprile, ad esempio, l’Ansa, citando una ricerca di Nature, ha definito il coronavirus «molto contagioso anche con sintomi lievi». Ma allora, come possiamo fidarci ciecamente delle campagne che recano il bollino del ministero della Salute? Tutti ricorderete, infatti, che prima del focolaio di Codogno, in tv circolava uno spot con Michele Mirabella, che ci rassicurava sul contagio da coronavirus: «Non è affatto facile».

Una gaffe o una bufala? Sarebbe abbastanza per pretendere le dimissioni del ministro – e del presidente del Consiglio, visto che le comunicazioni istituzionali sono coordinate dal Dipartimento per l’informazione e l’editoria di Palazzo Chigi. Ma è pur vero che i politici non hanno sempre avuto buoni consigli dagli «uomini di scienza», come li chiama il direttore Di Bella. Sempre a proposito del contagio, basti citare Roberto Burioni bifronte: lo stesso luminare che avvisava del pericolo dei portatori sani, diceva però che era più facile essere colpiti da un fulmine che beccarsi il Covid-19.

E la virologa del sacco, Maria Rita Gismondo? Sul Fatto Quotidiano ha scritto – ed è condivisibile – che «ci siamo fatti trovare impreparati dalla pandemia a livello internazionale». Ma lei era quella che, nei primissimi giorni dell’emergenza in Lombardia, si lamentava per la quantità spropositata di tamponi inviati al suo laboratorio. E affermava che il coronavirus era una «problematica appena superiore all’influenza stagionale». Dopo una ventina di giorni, ha dovuto ammettere di essere «attonita». Quando la dottoressa ha ipotizzato che in Lombardia il virus fosse mutato, i colleghi le hanno fatto pervenire una diffida. Allora, nessuno aveva fiatato.

E le mascherine? Si sono sprecati i «chiarimenti» su quanto fossero inutili. Secondo Giovanni Maga, del Cnr, servivano solamente «in una zona ad alto rischio di contagio». Poi ci siamo accorti che tutta Italia è a rischio contagio. È ancora visibile, sul sito del ministero della Salute, il post del 25 febbraio, secondo cui le mascherine vanno indossate «solo se sospetti di aver contratto il nuovo coronavirus». Ma siccome gli asintomatici sono comunque contagiosi, dobbiamo considerarci tutti «sospetti». A esser maliziosi, si può «sospettare» che certi messaggi fossero stati diffusi perché qualcuno sapeva che di mascherine non ce n’erano. Le poche disponibili era meglio riservarle ai medici.

E i tamponi? Anche la Lombardia è stata ondivaga: un giorno Attilio Fontana ha assicurato che la Regione s’era attenuta scrupolosamente alle direttive degli esperti, che erano stati somministrati più test che in tutte le altre Regioni. Il giorno dopo è partita la missione degli esami a tappeto, sulla falsariga del Veneto di Luca Zaia. A livello centrale, non è mai stato chiaro quale fosse la policy. All’inizio se ne sono fatti a pacchi, poi sono stati riservati ai pazienti con sintomi, molti dei quali nondimeno hanno lamentato di essere stati ignorati; in questi giorni, gli esami clinici stanno di nuovo aumentando.

Ci sono Vip che in tv raccontano di aver svolto il test pur non avendo sintomi; e persone che sono morte senza diagnosi, come denunciano i sindaci della Bergamasca. D’altronde, persino la Protezione civile nei primi giorni aveva provato a mischiare le carte, distinguendo tra i morti «per» e quelli «con» il coronavirus.

Senza contare che i virologi e gli epidemiologi, perennemente in tv, nei talk show dicono e contraddicono. Tra loro ci sono profondi disaccordi, magari legittimi, perché il morbo è nuovo. Ma se il principio di non contraddizione non è morto pure lui di coronavirus (o con il coronavirus), non si possono prendere per oro colato, al tempo stesso, l’esperto che sostiene A e l’altro che sostiene B.

Nella squadra speciale contro le bufale, i camici bianchi sono tutti d’accordo? Perché se no, il rischio è che l’altisonante «task force» si riduca a smentire quelle che nemmeno il complottista scimmiottato da Maurizio Crozza considererebbe notizie attendibili. Tipo il consiglio di fare gargarismi con la candeggina. Ecco, anziché sbugiardare questa fesseria, perché il dicastero di Roberto Speranza non ci spiega come mai, ogni dì alle 18, il commissario Angelo Borrelli ci legge un bollettino con dati che egli stesso considera ampiamente sottostimati? A chi crediamo? Alla Protezione civile, per cui sono state infettate 110.000 persone, o all’Imperial College di Londra, che parla di 5,9 milioni di contagiati?

Non ci scordiamo che le autorità politiche e sanitarie mondiali, quelle che esigono fiducia e obbedienza, hanno comprato a scatola chiusa i numeri forniti dai cinesi, elogiandone la gestione dell’epidemia. Nonostante Pechino l’abbia nascosta per mesi, mettendo addirittura in galera il medico che per primo aveva lanciato l’allarme. «Ufficialmente», stava diffondendo «fake news»…

Alessandro Rico, 2 aprile 2020

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