Sapete chi è Muntadar al-Zeidi? Nel 2008 ebbe il suo warholiano quarto d’ora di celebrità quando, in una conferenza stampa a Baghdad, prese a scarpate Bush, che le scansò con un sorriso divertito. Eppure, il lanciatore non era un quidam de populo, bensì un reporter della tivù di stato irakena. Era, il suo, il gesto disperato e impotente di chi aveva visto distrutto il suo Paese, con megasfacelo di c.d. danni collaterali, e condannato a un’instabilità cronica.
Ricordate? Emilio Fede vinse la gara dei tiggì annunciando per primo l’attacco a una Baghdad ignara. Vedemmo le bombe cadere su una città completamente illuminata. Non se lo aspettavano. Anni prima l’Irak si era estenuato in una decennale «guerra dimenticata» con l’Iran, su input dei padroni del mondo: un milione di morti. La dottrina Brzezinsky aveva sostituito lo Scià con Khomeini, nella speranza che l’islamismo facesse da detonatore per tutte le repubbliche sovietiche di religione musulmana confinanti. Non fu così. Allora, la carta Saddam. Ma poi quest’ultimo passò all’incasso. Voleva lo sbocco al mare, il Kuwait. Ebbe l’ok? Boh, chi dice sì, chi dice no. Comunque, la tivù mostrò le scene strazianti dei ricchi kuwaitiani che, chador in testa, fuggivano in lacrime al volante di Volvo di grossa cilindrata. Saddam era caduto in una trappola? Ri-boh.
Per l’«operazione Desert Storm» si formò la più grande coalizione militare mai vista nella storia. Contro un tirannello mediorientale. Vedemmo in tivù i marines seppellire coi bulldozer mimetici i soldatini irakeni nelle loro trincee di sabbia. Anche i dietrofront lasciando gli alleati nella cacca li abbiamo visti nei tiggì, dal Vietnam all’Afghanistan. Ma Hollywood mira lungo: bastano pochi anni perché un bambino diventi un adulto, e bastano vent’anni perché i nuovi elettori non sappiano niente di certe guerre. Cosa fatta capo ha. Chissà dov’è e che cosa fa quel bambino che i genitori, disperati, affidarono a un marine perché salvasse almeno lui dai talebani di Kabul. Speriamo che sia tornato ai genitori, perché quel marine, come sappiamo, lo piantò in asso nel marasma e si imbarcò sul suo C130.
Solo a distanza di un secolo, e a partire dal Sessantotto (nato a Berkeley, Usa, e padre dell’attuale filosofia woke), Hollywood si decise a far sapere a tutti degli innumerevoli trattati firmati dai vari governi americani con gli indiani e regolarmente stracciati. Un (quasi) nero alla Casa Bianca c’è stato, ma avete mai visto un pellerossa? Eppure, li chiamano native american perché c’erano da ben prima dei neri. Nel 1970 il film Patton, generale d’acciaio vinse ben sette Oscar. Il protagonista, George C. Scott, si rifiutò di ritirare il suo. Eh, in quel biopic mancavano diverse cose, una delle quali ci riguarda da vicino: sbarcato in Sicilia, il generale che portava la fondina da cowboy non faceva sconti ai i soldati italiani arresisi; era in gara con l’inglese Montgomery per chi arrivava primo a Roma e non poteva portarsi dietro zavorra.
L’ultimissima hollywoodata parla proprio dello sbarco in Sicilia, e di come i furbi inglesi riuscirono a far credere ai tedeschi che lo sbarco sarebbe avvenuto in Grecia. Così, quelli spostarono le truppe e in Sicilia rimasero solo gli italiani. L’arma dell’inganno. Operazione mincemeat si intitola, con Colin Firth. Già, l’arma dell’inganno. Come nel mistero di Ustica: solo nel film del regista Martinelli si fa cenno a responsabilità americane. Ma a volte non ce n’è bisogno. Come nella tragedia del Cermis, 1998: tutto chiaro, tutti assolti. Tornando a oggi e alle scarpe irakene. Il Medioriente è completamente devastato e non sa come uscirne. Ma l’odio antiamericano vi ha messo solide radici e ormai è l’unica cosa che hanno in comune quei disgraziati che vi abitano.
Ora tocca agli ucraini. Ma con loro «l’arma dell’inganno» si chiama Putin. Prima o poi, comunque, gli angloamericani dovranno vedersela con la Cina. E chissà cosa escogiteranno contro un Paese che può permettersi milioni di perdite senza quasi accorgersene, mentre per un marine che torna nella bandiera si scatenano le piazze, specie se è nero…
Rino Cammilleri, 15 giugno 202