I tempi della politica corrono veloci, ultimamente. E quelli della memoria si accorciano. Eppure, a volte sarebbe opportuno riavvolgere il nastro, e riflettere: cercare nell’altro ieri prossimo i segni del presente attuale. Era il 21 marzo di due anni fa, un giovedì sera, quando XI Jinping atterrò in Italia per una visita ufficiale. Fu ricevuto in pompa magna. Al governo c’era ancora uno strano e “innaturale” governo giallo-verde, con un premier-fantoccio che si era definito “avvocato del popolo” ma che in sostanza rispondeva a Grillo, Di Maio e anche, in verità solo in piccola parte, a Salvini (verso il quale fingeva cortesie mentre in realtà stava preparando un omicidio politico che di lì a qualche mese avrebbe cinicamente consumato a freddo nel caldo di agosto). Conte, in quella occasione, non lesinò certo le pompose parole da retore meridionale in onore dell’ospite, parlando dei due Paesi come culla di civiltà e storia millenaria. E soprattutto firmò ad occhi chiusi una serie di intese commerciali che di fatto facevano dell’Italia l’avamposto della penetrazione cinese in Europa. Al Quirinale fu organizzata una cena luculliana, con vip, nani, ballerine, che facevano a gara ad essere invitati per essere proni verso il Celeste Impero e il suo illustre rappresentante.
Salvini dovette odorare qualcosa di non chiaro, in tutto questo, tanto che non partecipò alla cena e fuggì addirittura da Roma. Son passati due anni, la legislatura è sempre la stessa, leghisti e grillini sono di nuovo al governo insieme, di mezzo c’è stata una drammatica e mal gestita pandemia, ma a dettare le danze è ora Mario Draghi. Il quale la sua scelta americana e atlantista l’ha fatta sin dal giorno dell’insediamento, e l’ha simbolicamente riaffermata in questi giorni fra G7 e vertice Nato. L’adesione alla politica americana, che ormai già dai tempi di Trump vede nella Cina il nemico strategico del mondo libero, ha annullato di colpo tutte quelle liaison che improvvidamente il primo governo di questa legislatura, ispirato dai Cinque Stelle, aveva messo in campo con l’”amico” cinese. È in questo contesto che bisogna leggere la reazione veemente sul suo blog di Grillo, ormai una vera mina vagante della politica italiana, e la contemporanea “visita d’onore” all’ambasciatore cinese in Italia in coincidenza con gli incontri di Draghi a Londra e Bruxelles con Biden e gli altri.
Come al solito Conte, che doveva andare con Grillo, si è sfilato all’ultimo momento: ha cercato di non prendere posizione né con e né contro il suo mentore, arrivando ad addurre la più classica delle scuse per giustificare la sua retromarcia (“problemi familiari”) sempre nell’ottica di poter darla a bere al prossimo con facilità (che è stata un po’ la cifra di tutta la sua presenza a Palazzo Chigi). Quello che a suo tempo ci era parso un passo esagerato verso la Cina dovuto a superficialità ed approssimazione, ci si pone oggi in un’altra luce.
Portandoci quasi e persino a giustificare qualche idea complottista; in sostanza, perché Grillo tiene così tanto alla Cina? Cosa ne ricava? Senza dimenticare che nelle stesse ore emergeva, quasi muovendosi all’unisono, tutto il “partito filocinese” che scorre come un fiume carsico nel territorio della sinistra: da Prodi, che amico del governo cinese è da sempre e ne ha avuto in cambio ricche consulenze, a D’Alema, che con Pechino vorrebbe continuare a fare affari e, chissà, forse illudersi di tenere accesa in questa moda la fiammella del comunismo anche da noi; fino a un Diliberto, che ci ha fatto sapere di aver portato Giustiniano, cioè il codice civile occidentale, in Cina (sic!).