Tanto tuonò che piovve. Tutto si può dire della crisi in Ucraina, meno che Putin abbia colto qualcuno di sorpresa. Mai operazione militare è stata così a lungo preparata sotto i riflettori del mondo, in quattro mesi, mandando un’unità alla volta, prima le forze di primo scaglione, poi la logistica, infine gli ospedali da campo. E poi, come annunciato, le truppe russe sono entrate in Ucraina, nella regione del Donbass, il giorno stesso in cui Putin ha riconosciuto l’indipendenza delle sue due province (oblast) di Luhansk e Donetsk.
Una guerra lunga otto anni
La guerra non è nuova, è iniziata con la proclamazione unilaterale di indipendenza delle due province, dall’Ucraina, nella primavera del 2014. Quindi parliamo di un evento di otto anni fa che ha prodotto un conflitto “a bassa intensità”, che continua tuttora, con 16mila morti e almeno 1 milione di profughi. Non è una novità neppure la presenza di truppe russe nel Donbass. Mosca ha sempre negato di averne mandate, ma era il classico “segreto di Pulcinella”. E d’altra parte non si spiegherebbe perché, già nelle battaglie del 2014 e del 2015, quello che avrebbe dovuto essere solo un improvvisato esercito di separatisti, battesse sul campo l’esercito regolare ucraino con un rapporto di perdite schiacciante. La differenza è che ora le truppe regolari russe sono entrate nel Donbass anche mostrando bandiera, nella veste di “peacekeeper”, ma per proteggere due Stati che la comunità internazionale, a parte Russia, Siria e Yemen, non riconosce. Perché è stato possibile, un delitto così annunciato?
La miopia sulle manovre russe
Finora si era giocato sull’ambiguità. I russi ci sono, ma non lo dicono, il Donbass aveva due repubbliche indipendenti, ma per tutti era ancora una regione ucraina. Si parlava in modo equivoco per continuare a condurre l’inutile balletto (inutile, alla prova dei fatti) dei colloqui di Minsk e Minsk2: sette anni di parole al vento. Ora la Russia ha semplicemente gettato la maschera. Ma lo ha fatto perché, evidentemente, sapeva di non rischiare nulla. Per mettere ancora più carne al fuoco, nel suo discorso alla nazione, ieri, il presidente russo ha anche, di fatto, disconosciuto l’Ucraina, definendola un errore storico. Lascia intendere, dunque, che potrebbe non fermarsi alla missione di “peacekeeping” nel Donbass, ma potrebbe arrivare sino a Kiev. E anche qui, lo dice perché non teme le conseguenze. Perché?
Gli errori dell’Occidente
Domandiamoci, a questo punto, quale forma di deterrenza ha esercitato l’Occidente, nome con cui generalmente si indica l’insieme dei Paesi membri della Nato e dell’Ue. Come sappiamo, l’Ue non ha una forza militare, ma è ancora considerata una potenza economica, dunque potrebbe esercitare pressing economico. Tuttavia, la “locomotiva” dell’Unione, nonché uno dei più forti membri europei della Nato, la Germania, ha rifiutato ogni forma di sostegno concreto (in armi) all’Ucraina. E la spiegazione è molto semplice: il Nord Stream, da cui importa il gas dalla Russia. Ed è in discussione l’apertura del raddoppio, il Nord Stream 2, ma i tedeschi non sono stati chiari in merito.
Il cancelliere Scholz è socialdemocratico, il suo predecessore Schroeder è stato membro del consiglio di amministrazione di Nord Stream, la sua promozione a membro del consiglio di amministrazione di Gazprom (azienda di Stato russa) è stata annunciata meno di un mese fa. Poi ci chiediamo come mai, nel corso delle ultime trattative, i messaggi lanciati dai tedeschi sono stati ambigui: Berlino ha addirittura messo in discussione il memorandum di Budapest del 1994, quello con cui la Russia (garanti gli altri membri occidentali del Consiglio di Sicurezza) aveva promesso la sicurezza dell’Ucraina nei suoi confini del 1991 (dunque Crimea inclusa) in cambio della consegna di tutte le armi nucleari presenti nello Stato ex sovietico. La Germania avrebbe detto, con un condizionale ancora d’obbligo, ma credibile, che il memorandum di Budapest non è legalmente vincolante. Quindi è stata una luce verde a un potenziale invasore, sebbene oggi abbia “sospeso” per il momento l’approvazione del North Stream 2.
Il fallimento di Biden
La potenza militare a guida della Nato è una sola: gli Stati Uniti. Domandiamoci, dunque, che segnali abbia lanciato l’amministrazione Biden. Dopo che il 17 dicembre Putin aveva esplicitato le sue richieste (di fatto un disarmo unilaterale della Nato sul suo fianco orientale), Biden aveva rifiutato di scendere a compromessi, ma al tempo stesso ha detto e ripetuto molte volte che non sarebbe mai intervenuto militarmente in caso di invasione russa dell’Ucraina. E questo è tanto basta per dare luce verde a un potenziale invasore. Fino a questa crisi, infatti, la protezione militare dell’Ucraina era abbastanza garantita dall’ambiguità della Nato sulla possibilità di un intervento armato: interverrebbe o no? Nel dubbio, meglio astenersi. Ma con Biden questa ambiguità è finita. Il presidente americano ha dato anche prova di granitica determinazione al ritiro, come quando, in agosto, ha annunciato la ritirata dall’Afghanistan, annunciandone la data ai Talebani con quattro mesi di anticipo e poi precipitando i tempi dell’evacuazione anche contro il parere dei generali. Il Cremlino, dunque, può star certo che quando il presidente Biden dice che vuole rinunciare a difendere un alleato, fa sul serio. Anche la Cina sta prendendo nota e pregusta il momento della conquista di Taiwan. I giornali di regime già lo dicono dall’estate scorsa: gli Usa non la difenderanno.
Il presidente americano, nell’ultimo mese di crisi si è distinto per aver parlato di invasione imminente molte volte, rendendo pubblici i dati che gli forniva l’intelligence. I fan del presidente democratico si sono precipitati a tessere le lodi di questa nuova strategia, inventando neologismi (“total transparency”, “public intelligence”, ecc…) che fanno cool negli ambienti accademici e giornalistici. Ma questa strategia non ha portato a nulla. “I russi invaderanno” ha detto Biden e la risposta russa è stata “grazie, lo sappiamo”. Punto, fine dei giochi. Dire pubblicamente le cose come stanno e come saranno non è un deterrente, ma semmai un alibi: i direttori delle agenzie di intelligence potranno dire in futuro “noi lo sapevamo”.
Se il deterrente occidentale non ha funzionato, possiamo attenderci una risposta politica ed economica seria? Lo vedremo nelle prossime settimane.
Stefano Magni, 22 febbraio 2022