Una valanga, quando la vedi partire, pare solo una palla di neve, ma poi diventa sempre più grande e continua ad autoalimentarsi fino a travolgere un’intera valle. Quello a cui stiamo assistendo è una valanga, partita nel novembre 2021, quando la Russia iniziò a schierare truppe ai confini dell’Ucraina e divenne ben visibile il 17 dicembre, quando Putin pose le sue condizioni per la pace, chiedendo, di fatto, un disarmo unilaterale del fianco orientale della Nato (il “suo” ex Patto di Varsavia) e un impegno formale a non ammettere l’Ucraina nell’Alleanza. Poi si è alimentata da sola.
Una volta che le condizioni sono state poste e la Nato, come era comprensibile, ha risposto negativamente, il presidente Vladimir Putin non avrebbe potuto ritirare le truppe, senza perdere la faccia con il suo popolo e con il mondo. E così le forze alla frontiera sono state rafforzate e rese sempre più operative, mentre parallelamente il lavoro della diplomazia è diventato sempre più difficile perché Putin non avrebbe più potuto abbassare la portata delle sue richieste.
Dopo le illusioni del dialogo con Emmanuel Macron, si è arrivati all’inevitabile: all’ingresso delle truppe regolari russe nel Donbass, dove i russi avevano sempre negato la loro presenza. Il casus belli è proprio la regione del Donbass, abitata da russofoni, controllata in parte delle due repubbliche separatiste pro-russe di Lugansk e Donetsk sin dal 2014 e teatro di guerra “a bassa intensità” fin da allora. Ma a questo punto la posta in gioco si era già alzata troppo per un’azione limitata al solo Donbass.
Infatti, nel suo discorso di riconoscimento dell’indipendenza delle due repubbliche, il 21 febbraio, Putin ha parlato di Ucraina nel suo complesso. Confermando quanto aveva già scritto in un suo lungo articolo programmatico l’estate scorsa, ha dichiarato: «Vorrei sottolineare ancora una volta che l’Ucraina non è solo un paese vicino per noi. È una parte inalienabile della nostra storia, cultura e spazio spirituale.
Da tempo immemorabile, le persone che vivono nel sud-ovest di quella che è stata storicamente terra russa si chiamano russi e cristiani ortodossi. Questo era il caso prima del XVII secolo, quando una parte di questo territorio si unì allo stato russo ». Due giorni dopo, con un discorso probabilmente pre-registrato il 19 febbraio (secondo fonti della Novaya Gazeta), Putin ha “risposto all’appello” di aiuto delle due repubbliche e ha dato inizio all’intervento. La data è importante: se dovesse essere confermata la notizia della Novaya Gazeta, si tratterebbe di un attacco premeditato, ordinato in un giorno in cui in Europa e negli Usa si credeva ancora al dialogo.
La valanga si sta ingrandendo ancora. Anche se le notizie sono ancora frammentarie e non verificabili, la guerra non si limita ad un’operazione solo locale per mettere in sicurezza il territorio del Donbass, né alla creazione di un corridoio di terra che unifichi la Crimea alle due repubbliche orientali.
Si sta configurando un’invasione su larga scala. Prima di tutto, lo dimostra la quantità e la profondità degli obiettivi colpiti, già più di settanta, nelle regioni di Zaporizhzhia, Odessa, Kherson, Mykolaiv, Poltava, Chernihiv, Zhytomyr e la stessa capitale Kiev. Si tratta di un attacco a tutto campo, da Est a Ovest dell’Ucraina. Solo l’estremo Nordovest, la regione di Lviv confinante con la Polonia, pare, almeno per il momento, risparmiata. Sul terreno, oltre all’offensiva nel Donbass, si registrano combattimenti anche sul confine settentrionale, quello che separa l’Ucraina dalla Bielorussia. Un settore da cui le forze russe possono tentare un’avanzata corazzata direttamente sulla capitale.
Sarebbe coerente con quanto ha dichiarato Putin, nel suo discorso di inizio della “operazione speciale”: la demilitarizzazione e la “denazificazione” dell’Ucraina. Per demilitarizzare occorre, prima di tutto, sconfiggere il suo esercito in modo decisivo. E per “denazificazione” Putin intende chiaramente il rovesciamento del governo di Kiev, un esecutivo “nazista”, secondo la propaganda russa, con un presidente ebreo (Volodymyr Zelensky) votato anche dalla maggioranza degli ucraini russofoni due anni fa. Queste dichiarazioni e i primi sviluppi dell’offensiva non fanno dunque sperare in un’azione limitata, ma in un’invasione a tutto campo.