Dalla tornata elettorale di domenica il centrodestra esce con la bocca un po’ amara, inutile negarcelo. Avevamo posto troppe aspettative in essa, dalla “spallata” in giù, e avevamo anche un po’ creduto ai sondaggisti (di cui dovremmo imparare a non fidarci) sul testa a testa annunciato in Puglia e Toscana. Ma inutile piangere sul latte versato. Propongo di guardare piuttosto il bicchiere mezzo pieno e non la metà vuota.
Il centrodestra deve cambiare narrazione
Nonostante il fatto che stare all’opposizione, e starci in periodi di emergenza (più o meno percepita), logora, il centrodestra, preso nel suo complesso, ha tenuto. E ha tenuto in tutte e due le componenti che oggi lo costituiscono, e nelle mille anime, anche localistiche, che lo contraddistinguono. Il problema che però sorge è presto detto: come far valere questa forza politica? Come farla pesare, prima o poi? Come tenerla in congelatore il meno possibile? E allora, a questo punto, bisogna essere realisti, guardare in faccia la realtà senza coazioni a ripetere. Anche se certi stilemi e certe idee hanno fatto la fortuna di Lega e Fratelli d’Italia, e ai loro leader ne va dato assolutamente atto, l’impressione è però che, da una parte, il clima generale del Paese sia mutato, dall’altra, che, per andare oltre il (già tanto) consenso ottenuto, ci voglia qualcosa di più. Anche perché, se il tuo avversario (intendo il governo ma anche l’Unione europea) ha cambiato narrazione, tu non puoi ripetere la narrazione di sempre, che pure ha fatto la tua fortuna.
Cosa fare…
Bisognerebbe perciò agire lungo una doppia direttrice, a mio avviso: articolare meglio la proposta politica, renderla più spendibile. Prima di tutto, l’Europa. Ci può piacere o meno, ma le sorti dei governi si decidono anche, e nel nostro caso soprattutto, a Bruxelles. La cui attuale governance non ci piace, ma non possiamo combatterla battendo i pugni sul tavolo: non perché in certe occasioni non lo si possa fare, ma perché per farlo se ne deve avere la forza. Non siamo la Gran Bretagna, per tanti motivi, non ultimo il debito che ci portiamo appresso. È un po’ ridicolo parlare delle condizionalità del Mes, facendolo diventare (come fanno dall’altra parte i Cinque Stelle) una sorta di feticcio ideologico, quando siamo condizionati da ogni dove. Per acquistare autonomia, dobbiamo usare le armi della politica: stringere alleanze, lavorare sulle contraddizioni dell’avversario (ad esempio in casa popolare), presentare un articolato progetto di Europa delle nazioni e dei popoli alternativa a quella burocratico-ingegneristica che è la attuale.
Due anni e mezzo fa scrissi un pamphlet, il cui ultimo capitolo si intitolava (ammetto senza troppa fantasia): Un’altra Europa è possibile. Esso arrivava dopo che, nei capitoli precedenti, mi ero dilungato a spiegare l’Europa così come era diventata, da Maastricht in poi, era fallita. In quel momento era giusto insistere sul “fallimento”, forse ora bisognerebbe lavorare più sulla “ricostruzione”. La quale non può non avvenire in forme democratiche, liberali, autonomistiche, e legate al concetto (culturale prima che politico) di Occidente. Si può anche cedere sovranità, ma il processo deve avvenire in forme democratiche e trasparenti.
Quanto all’Italia, a me sembra che una “prateria” si apra considerata la cultura anti-industriale, anti-produttivistica, distributivistica, di questo governo. Perché non approfittarne, con più coerenza e in modo più organico di quanto non si sia fatto finora, soprattutto dopo il lockdown? Sovranità nazionale non significa statalismo: significa uno Stato che, proprio per il bene della Patria, sappia dar libero corso alle energie vitali e morali di un popolo, e nel nostro caso anche agli “spiriti animali” industriali che certo non ci difettano.