Valerio Catullo se lo chiedeva più volte, cosa l’Amore fosse. Se cupiditas o se vanitas. Poi però accorgendosi che non c’era un risposta a cui poteva sopperire autonomamente, lo chiedeva direttamente alla sua amata Lesbia.
Vivamus, mea Lesbia, atque amemus. Viviamo, mia Lesbia, e amiamoci,
rumoresque senum severiorum e ogni mormorio perfido dei vecchi
omnes unius aestimemus assis. valga per noi la più vile moneta.
soles occidere et redire possunt: Il giorno può morire e poi risorgere,
nobis cum semel occidit brevis lux, ma quando muore il nostro breve giorno,
nox est perpetua una dormienda. una notte per sempre, da dormire, ci spetta.
… …
Dein, cum milia multa fecerimus, E quando poi saranno mille e mille
conturbabimus illa, ne sciamus, nasconderemo il loro vero numero,
aut nequis malus invidere possit, che non getti il malocchio l’invidioso
cum tantum sciat esse basiorum. per quanti possano essere i nostri tanti baci.
Di lei Catullo non nomina mai il suo vero nome, ch’era nella realtà Clodia, la figlia del console Appio Claudio Pulcro (54 a.C), ma si limita a chiamarla con uno pseudonimo che derivava direttamente dal luogo di origine in cui s’era formato il genus dei suoi versi, Lesbia.
Il nome di Lesbia è una privatio generis con cui Catullo non contravveniva al precetto saffico e callimacheo del secretum amoris, che diverrà il topos di tutta una fortunata letteratura e pittura che ci è sopravvissuta dopo l’Ottocento attraverso il concetto di “romantico”.
Nell’idea che è arrivata a noi sotto questo codice, si conserva in effetti ancora intatta l’immagine di amore furtivus (resa in Catullo da quel «conturbabimus») dalla cui efficacia iconologica non pare sia possibile tutt’oggi restare distanti, o quanto meno non dipenderne strettamente nelle attuali dimensioni conoscitive e acquisitive dei rapporti socio-antropologici.
L’uomo di ogni età e di ogni epoca ha dovuto dunque fare i conti con questo “amore nascosto”, che ha in parte modellato sulle tortuose insenature della sua tradizione paradigmatica le antinomie del comune sentire umano, cioè del suo sentimento adulto.
Ma cosa è questo amor furtivus? La prima rappresentazione in volgare dell’”amore nascosto” ci proviene dall’Inferno V di Dante, in un canto che è stato reso celebre se non dai suoi lettori più illustri contemporanei quale il Petrarca e il giovinetto Boccaccio, almeno e soprattutto dalla rilettura dell’Ariosto nel suo Furioso con Bradamante e Ruggero, dove si arriva a considerare nell’«ascoso cor» addirittura il furto dell’identità, il ratto della ragione che vedrà sublimarsi nel «paladino Orlando».
Ma ai vv. 100-105 dell’Inferno V noi leggiamo:
Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona,
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte.
Dante preconizza non solo il ratto dell’Orlando Furioso, recuperando qui una visione chiastica arcaica della saeva cupiditas e della puella fugens, ma anche il suo salto dal mondo con l’amore divino, il suo «folle volo» con cui lo rapisce il contatto sacro col Magnifico.
Paolo e Francesca di Dante sono due innamorati che la tradizione morale ha condannato proprio per il valore luciferino, ambiguo, trascorrente e occulto dei loro baci (basia) che ha indotto Dante a inserirli, anche a suo malincuore, nel giro dei Lussuriosi.
Il bacio ha pertanto un valore di luxuria ac infamia, cioè propriamente di lascivia e vergogna che costringe gli amanti a nascondersi dalle loro responsabilità pubbliche, e rifugiandosi nel nido privato, distaccandosi dalla loro quotidianità.
E che il bacio dovesse avvenire nelle stesse condizioni in cui si commette un furto, cioè di spalle dalla comunità, all’oscuro della collettività “arcigna” che condanna con l’invidia, ce lo confermano oltre le numerose attestazioni di pittura parietale rivenute a Pompei agli inizi del Novecento, sulla riproduzione tematica degli amanti ritratti di tergo nel loro amplesso o in alternativa coperti simbolicamente da drappi purpurei, anche la tradizione iconografica rinascimentale e della Controriforma, più attenta al recupero topico del dolum amoris.
Ci sono state nel frattempo molte novità nell’iconografia classica del soggetto erotico, ma forse quella più significativa che ha riportato in auge la semiosi dell’amor furtivus è dopo quello di Hayez (1859), “Il Bacio” (Le Baiser) di Auguste Rodin (1888-89), che sarà fondamentale per la sua detorsio in perpetuo tempore all’alienazione testuale che ne faranno successivamente Munch e ancor più rumorosamente Klimt.
Dopo l’opera klimtiana il “bacio” ha smesso di contenere nell’arte la figura del discidium amoris, cioè proprio quel conflitto definito da Eco “escogitativo” che dal mondo arcaico non hai mai perso la sua ancestrale vitalità nell’attualità umana. Quella ironia ben espressa dall’Ariosto verso la indomabilità di quella forza allucinogena che «invischia» la ragione senza troppi mezzi termini sulla prosa del proprio costrutto sociale, riappare dopo quasi un secolo nell’opera però non della civiltà occidentale, ma orientale.
È la giapponese Chigusa Kuraishi forse fra le heroides di questa impresa. Un paradosso che ben si esplica in un topos squisitamente di derivazione ellenica, ampliato e rielaborato per secoli dall’iconografia occidentale ed europea, e che ora viene ad essere ri-preso e restaurato da una artista che è impregnata di quel fatalismo quasi religioso che connette la santità dell’idea con la morte dell’atto.
Il suo Amore, converte invece, sotto un titolo che non ha visto di frequente nella nostra tradizione figurativa il momento del bacio, quanto più quello più intimo dell’amplesso apuleiano, la associazione tipicamente italiana di Amore-Morte in un nuovo codice visuale semantico.
L’acrilico misto alla tempera di preparazione a gesso getta su una tela perfettamente quadrangolare (100 x100 cm) una scena che avremmo altresì chiamato, alla stregua del canone arrivatoci, “il bacio”. Ma c’è una spia testuale che contraddistingue quasi come marchio autoriale il soggetto dal contesto in cui l’opera è stata realizzata a Perugia, della cui cultura altamente sensibile del lascito rinascimentale, Kuraishi pur risente.
Esposta prima in occasione dell’anniversario dei “100 anni di Baci Perugina” dal 27 agosto al 18 settembre 2022 presso la Sala Cannoniere della Rocca Paolina di Perugia e poi l’anno dopo presso il Museo Civico di Tübingen, la contaminazione cromatica punterellata in foglia oro, denomina la chiara ascendenza di matrice nipponica del “momento sacro”.
Due volti sono iscritti di traverso verso lo spettatore in un cuore segnato da un blu indaco, anch’esso chiave sperimentale per il linguaggio di Kuraishi, che viene travolto da una pioggia policroma di mezzitoni derivati e primari. Principalmente il rosso perugino e il giallo canarino bloccano, catalizzano le ore di un evento che sembra trasfondersi ancora da una bocca all’altra, da un animo all’altro, da un cuore timido a uno gentile, mentre chi guarda è quasi vocato a invidiarli con giudizio di “mortale impossibilità”. Gli occhi definitivamente chiusi immaginano quella notte «una dormiennda», da dormire insieme per sempre, lontano dal presente, e immersa nel liquido di una folle nostalgia verso la humana conditio.
Kuraishi rimodella e cambia il segno lasciato da Klimt, per ricordare all’occhio che guarda il dissidio inguaribile tra nostalgia e follia in chi si ama e non perdona di aver amato.
Mauro Di Ruvo, 16 marzo 2025
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