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Un classico della sinistra: il terrore del voto

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Inutile inerpicarsi in previsioni sulla crisi di governo più folle della storia: si rischia di essere smentiti un minuto dopo. Tutto può accadere. Anche perché molto dipenderà dalla maionese impazzita chiamata Pd (cosi lo definì Massimo D’Alema già pria che nascesse). Diversi osservatori fanno notare che Zingaretti, che è pur sempre il segretario, resterebbe favorevole al voto, secondo quell’accordo «Ribbentrop Molotov» (copyright Minzolini) forse siglato con Salvini, che avrebbe contribuito a convincere il leghista a mandare a spasso, per ora solo virtualmente, Conte.

Chi si fida di Zingaretti avanza ipotesi sensate ma, se osserviamo le serie storiche, quelli che come noi vorrebbero andare al voto immediato hanno poche ragioni per essere ottimisti. E il principale motivo di pessimismo è fondato sull’allergia della sinistra italiana, sia nella sua versione comunista e post comunista che in quella democratica, per il voto. Fosse per loro, infatti, sarebbe meglio non votare mai.

Fine anno 1994: cade il governo Berlusconi per disimpegno di Bossi. I postcomunisti del Pds, segretario D’Alema, supportati dal presidente della Repubblica, sono contrari ad andare alle urne e nasce il governo Dini. Autunno 1996: cade il governo Prodi, per disimpegno Bertinotti. L’Ulivo si fa convincere dal solito D’Alema a non votare, come chiesto da Berlusconi ma anche da Prodi. Parere non del tutto disinteressato: il segretario Pds diventa premier. Seguono pochi anni di stabilità bipolare. Poi si ricomincia: autunno 2011 cade il governo Berlusconi, Bersani vorrebbe votare ma il Presidente più i cacicchi del suo partito lo bloccano. Post referendum 4 dicembre 2016: Renzi vorrebbe le elezioni, ma Gentiloni e il Quirinale convincono i dem a rifuggire dalle urne.

Unica eccezione, alla caduta del governo Prodi nel 2008, quando la tentazione di intrugli con i soliti centristi di Casini per far sopravvivere l’Unione viene stoppata da Veltroni, fresco segretario del Pd a vocazione maggioritaria, che però aveva stretto un solido patto (non segreto) con il Cavaliere. Le argomentazioni utilizzate contro il voto furono negli anni le più varie: dai vincoli di bilancio, alla finanziaria, alle guerre ad argomenti persino più speciosi. Qualche maligno potrebbe ipotizzare che la sinistra non voglia quasi mai votare per paura di perdere. Un argomento valido per molti dei casi citati nella storia: paura di far vincere Berlusconi nel 1995 e nel 1998, paura di far vincere Grillo nel 2016, e paura di far vincere Salvini oggi.

Ma non è stato sempre così: se nel 2011 si fosse votato il Pd avrebbe stravinto, mentre l’appoggio al governo Monti lo ammazzò politicamente e portò alla “non vittoria” del 2013.  Questo esempio è quanto mai paradigmatico, perché ci dimostra che la sinistra è refrattaria al voto anche quando potrebbe vincere.

C’è insomma una ragione più profonda. E sta nella cultura politica della sinistra italiana: la tradizione comunista per definizione è sempre stata caratterizzata da una ritrosia verso le elezioni (per usare un eufemismo). Poi c’è la peculiarità del comunismo italiano: per il quale democrazia non ha mai voluto significare un modello liberal democratico ma una sorta di democrazia pactada, in cui il Partito assume decisioni forzando la volontà del popolo e dei suoi stessi militanti e stringendo appunto patti con gli altri partiti.

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