Tokyo è tra le poche metropoli mondiali che ti dà quella sensazione di sicurezza, che non siamo disposti a concederci nelle nostre città che ben conosciamo. Anche nei quartieri meno frequentati dai turisti si ha voglia di pensare che non ti possa succedere nulla di male; si ha il fondato sospetto che se ti cadesse il portafoglio ti inseguirebbero per restituirtelo. E forse è davvero così.
Apprezzo dunque quel commensale della Zuppa di Porro, che mi ha suggerito di leggere, mentre giravo per il Giappone, Le Quattro casalinghe di Tokyo di Natsuo Kirino, tradotto in Italia da Neri Pozza nel 2003 (ma è del 1997). Si tratta in fondo di una storia di amore, lo capirete leggendo fino in fondo il libro, in cui quattro casalinghe giapponesi cercano di rimediare al delitto commesso da una di loro, in preda ad un raptus domestico. Ma questo poco conta. Ciò che si legge è lo spaccato di una società, in America direbbero di una working class o di casalinghe disperate, apparentemente ordinata e tranquilla ma terribilmente attraversata da violenza, soprusi, umiliazioni e dominazione.
Leggi anche:
Non si tratta del borotalco delle descrizioni di Amelie Nothomb, ma di sangue. Gli uomini detengono ancora un privilegio che noi potremmo definire medievale. «Gli uomini passavano il tempo come più gli piaceva, ma alla sera come se fosse un punto fisso nella loro vita tornavano a casa sicuri di trovare una tavola apparecchiata». È ciò che la Kirino fa pensare ad una delle quattro, la più forte e la più dura delle casalinghe, che da una parte ritiene inevitabile il suo destino e dall’altro lo combatte nevroticamente. E la mafia, la yakuza (parola che solo pronunciare viene ritenuto disdicevole in un tavolo di persone perbene a Tokyo) ha una presenza così capillare da essere quasi considerata endemica. Un piccolo boss in fondo ne giustifica analiticamente la sua presenza: «Prendiamo Ryu Murakami e le studentesse. Loro detestano il padre.
Anche nel nostro mestiere abbiamo incominciato solo perché odiavamo i nostri padri, o la nostra patria, il Giappone non è così? Voglio dire che siamo tutti figli perduti, outsider ai margini della società». Un libro che non vi toglie l’incanto del Giappone, ma che ve lo farà vedere anche con un prospettiva diversa.