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Un Paese ostaggio della magistratura

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Mettiamo in fila gli eventi delle ultime settimane in Italia. La principale azienda industriale del Sud è come l’asino di Buridano. Da una parte i magistrati intimano la chiusura di un suo impianto fondamentale (l’Altoforno 2), dall’altra una diversa procura chiede che non venga spento. Uno degli azionisti fondamentali di questo governo (Matteo Renzi) è sotto schiaffo poiché una procura (la medesima che ha indagato e arrestato suo padre) sta indagando su un’ipotesi di finanziamento illecito relativo a una fondazione a lui vicina. Nell’inchiesta uomini della polizia giudiziaria hanno perquisito chiunque si sia azzardato, negli anni passati, a donare, pubblicamente e in modo registrato, risorse alla medesima fondazione.

Nel frattempo a Milano hanno rinchiuso ai domiciliari una ex parlamentare di Forza Italia (Lara Comi) per una consulenza fornita a un imprenditore, il quale non si è mai detto scontento della stessa. Il presidente grillino del Campidoglio (Marcello De Vito) è stato tenuto agli arresti per otto mesi, ed è tornato al suo posto solo una settimana fa. Anche perché un magistrato ha definito «congetture» le ipotesi di accusa.

Poco prima delle elezioni europee una retata, sempre in Lombardia, ha tolto ogni speranza di carriera politica a un giovane promettente (Tatarella), che nei prossimi mesi andrà a processo. Nel frattempo una serie di clamorose inchieste sulle spese pazze regionali sono finite con un nulla di fatto: vi ricordate il presidente della regione Piemonte Cota? Assolto. Così come è finita in bolle l’inchiesta che, pur non coinvolgendolo direttamente, aveva portato alle dimissioni del ministro Lupi, durante il governo Renzi.

E potremmo continuare all’infinito.

Conviene dunque riprendere in mano un libro scritto pochi mesi fa da un ex magistrato, Carlo Nordio, La stagione dell’indulgenza e i suoi frutti avvelenati (Guerini a Associati), che ci dice come dovremmo fare e che ci fornisce un punto di vista liberale: «Quali sono le riforme mancate? Sono quelle vigenti nei paesi dove questo tipo di processo funziona da secoli: la separazione delle carriere, la discrezionalità dell’azione penale, la riformulazione dei rapporti tra pubblico ministero e polizia giudiziaria, la distinzione tra giudice del fatto (la giuria popolare che emette il verdetto) e il giudice del diritto (che pronuncia la sentenza), e non ultima la nomina governativa dei giudici e quella elettiva dei pubblici ministeri».

Nordio anticipa le reazioni negative: «sono sempre improntate alla ripetizione petulante e sterile dei più triti luoghi comuni: una simile riforma ucciderebbe l’indipendenza della magistratura e sovvertirebbe l’ordine democratico. Ancora una reazione di pancia del tutto simile a tante altre che abbiamo visto e vedremo. Solo che qui non si tratta dell’emotività del popolino, ma della reazione pavloviana di chi si è avvolto nella matassa della consuetudine da perdere il filo della logica». Il populismo, verrebbe da dire, delle élite, dell’establishment.

Nicola Porro, Il Giornale 2 dicembre 2019

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