Secondo Platone la democrazia irrimediabilmente degenera, prima o poi, in tirannide: nell’ottavo libro della sua Repubblica, si cita la comparsa del demagogo, di chi si proclama guida e avvocato del popolo, quale prodromo alla trasformazione dalla democrazia al dominio del tiranno.
Storia di tiranni
Nell’Elogio del Tirannicidio, il colonnello Edward Sexby, pensando a Lord Cromwell, sosteneva che per sollevare il pugnale contro il tiranno non è richiesta altra giustificazione se non quella di averne la forza. Infatti, quando la legittimità del potere è la forza, a quella dell’oppressione risponde quella della resistenza, e non servono complotti o tribunali: basta uno scaltro sicario. E anche Cicerone avvertiva che «chi sfugge alla giustizia nei tribunali deve attendersi di trovarla nelle strade».
Non c’è bisogno di scomodare la follia di individui anarcoidi: perfino la stessa dottrina cattolica distingue tra il tiranno per usurpazione (che ha preso il potere illegalmente) dal tiranno per oppressione (cioè che abusa del potere che ha ricevuto legalmente). Già nel XII secolo San Tommaso d’Aquino: «Colui che allo scopo di liberare la patria uccide il tiranno viene lodato e premiato quando il tiranno stesso usurpa il potere con la forza contro il volere dei sudditi, oppure quando i sudditi sono costretti al consenso. E tutto ciò, quando non è possibile il ricorso ad una istanza superiore, costituisce una lode per colui che uccide il tiranno».
Prima ancora dell’Aquinate, il vescovo inglese Giovanni di Salisbury affermava che «non soltanto è permesso ma è anche equo e giusto uccidere i tiranni», in nome di un principio fondamentale di difesa sociale analogo a quello della legittima difesa personale. E nel 1414 Monsignor Claudio Fleury (autore di quella che Voltaire considerò la migliore Storia Ecclesiastica mai scritta) sosteneva la tesi che «Ciascun tiranno deve e può essere lodevolmente e per merito ucciso da qualunque suo vassallo e suddito in qualunque forma». E ancora: «È lecito a ciascun suddito senza alcun mandato o comandamento, secondo la legge morale, naturale, e divina, di uccidere o far uccidere ogni tiranno». E rincara: «non solamente è lecito, ma è onorevole e meritorio parimente».
E il gesuita Juan de Mariana nel 1599, a proposito del tiranno: «Riteniamo che si debbano tentare tutti i rimedi per rinsavirlo prima di giungere a un punto estremo e gravissimo. Ma se ogni speranza fosse oramai tolta e se fossero in pericolo la salute pubblica e la sanità della religione, chi sarà tanto povero di saggezza da non ammettere che sia lecito abbattere il tiranno con diritto, con le leggi e con le armi?». Fino ai giorni nostri, nella Gaudium et Spes, la costituzione pastorale del Concilio Vaticano II: «Dove i cittadini sono oppressi da un’autorità pubblica che va al di là delle sue competenze, essi non ricusino di fare quelle cose che sono oggettivamente richieste dal bene comune e sia perciò lecito difendere i propri diritti contro gli abusi dell’autorità». Naturalmente nel rispetto del Vangelo.
Da Robespierre a Lenin
Passando dal sacro al profano, citiamo, naturalmente, Robespierre: «Quali sono le leggi che sostituiscono la Costituzione? Quelle della natura, quella che è alla base della stessa società: la salvezza del popolo. Il diritto di punire il tiranno e quello di deporlo dal trono sono la stessa cosa. Il processo al tiranno è l’insurrezione, il suo giudizio è la caduta della sua potenza, la sua pena quella che richiede la libertà del popolo». E Lenin, in occasione del regicidio dl 1908, in Portogallo da parte dei repubblicani: «In verità quanto accaduto al re del Portogallo è solo un incidente sul lavoro legato al mestiere di re».