La political culture italiana è sempre stata ostile al capitalismo: dalle dottrine sociali della Chiesa all’ideologia del fascismo, passando per il socialismo e le terze vie democratiche. Anni fa una ricerca sulla figura dell’imprenditore nel romanzo, nel teatro, nel cinema italiano, che non ho mai pubblicato, mi portò alla conclusione che, tranne forse qualche eccezione, mai s’era visto sullo schermo un industriale rispettabile. Ho insegnato diversi anni Storia delle dottrine politiche in una Facoltà di Lettere e Filosofia. I piani di studio erano “liberalizzati” e, pertanto, nessuno era obbligato a sostenere l’esame di Economia politica se, come argomento della tesi di laurea, avesse scelto un tema di storia economica.
Una tesi sull’impegno politico di Ugo Foscolo, analogamente, non comportava la conoscenza (attestata) del pensiero politico dell’Ottocento e, quindi, l’iscrizione al corso di Storia delle dottrine politiche. In un ambiente iperpoliticizzato, erano pochi gli studenti che non restassero sconcertati dalla tesi da me sostenuta: che senza capitalismo e senza mercato è impensabile una democrazia liberale (aggiungevo che la democrazia liberale era solo una forma di governo e che per molti dei nostri compagni di viaggio su questa terra non aveva nulla di particolarmente allettante).
Neppure durante il ventennio fascista: il duce era (e rimase fino all’ultimo) un socialista massimalista e il regime vedeva nella plutocrazia il nemico da battere ma col metodo di Roma e non con quello di Mosca. Il commendator Bracci (Claudio Gora) di Una vita difficile, il grande film di Dino Risi del 1961, resta forse l’idealtipo del capitalista cinico depositato per sempre nell’immaginario collettivo degli italiani. (Vero è che lo stesso Risi, nel film Il vedovo del 1959, aveva affidato al personaggio di Elvira Almiraghi, donna d’affari milanese di successo, magistralmente interpretato da Franca Valeri, il compito di riscattare la categoria, almeno sul piano dell’intelligenza e della simpatia).
Leggendo sul Foglio del 2 aprile l’articolo di Claudio Cerasa: “Smettetela. Il virus non è il capitalismo”, m’è venuto da pensare malinconicamente che al tempo della mia giovinezza, soprattutto nelle scuole, nessuno avrebbe osato stigmatizzare «l’incredibile coalizione culturale tra soggetti diversi – sovranisti, socialisti, millenaristi, protezionisti, postcomunisti, sandersiani, corbyniani, catastrofisti ecologisti radicali – tutti intenzionati a dimostrare che catastrofi come le grandi pestilenze (ieri l’asiatica, oggi il corona virus) siano «la giusta punizione divina per un mondo malato di capitalismo». Cerasa rinvia al saggio – pubblicato sempre sul Foglio il 30 marzo u. s. – di Carlo Stagnaro “Il vaccino per l’economia” un vero e proprio Te Deum Laudamus per aver fatto scoprire alla povera umanità, fragile e sofferente, le benedizioni del mercato. «Per uscire dal coronavirus – è la tesi del Direttore dell’Osservatorio sull’economia digitale dell’Istituto Bruno Leoni – dobbiamo capire che l’economia è un ecosistema: se vogliamo che prosperi, serve ossigeno. Occorre liberare gli spiriti animali dal mercato, troppo a lungo scacciati come se fossero delle fiere da cui guardarsi o costretti a vivere in cattività».
Stagnaro ci ricorda gli immensi benefici che capitalismo e industria hanno recato al mondo e di cui, va detto, ci stiamo accorgendo proprio in questo periodo. Si pensi a cosa sarebbero gli “arresti domiciliari” decisi da un governo che fa del suo meglio per rallentare il contagio, se non avessimo la luce, il riscaldamento, la radio, la televisione, i collegamenti telematici. E tuttavia la gratitudine che dobbiamo alla “libertà economica dei moderni” rischia, forse, di farci dimenticare qualcosa di molto più importante delle conquiste della tecnologia e del mercato ovvero che il bene più alto, per l’uomo “adulto”, non è l’economia ma la democrazia, ovvero l’autodeterminazione dei popoli e degli individui, il diritto di ciascuno di essere faber fortunae sui.
Una democrazia che faccia scelte sbagliate sul piano della politica sociale, che sperperi risorse umane, che tra due strategie di intervento per venire incontro ai bisogni di un Paese, scelga la peggiore, è di gran lunga preferibile a una tecnocrazia di saggi, illuminati dalla scienza e dalla propria coscienza. Sempre che, beninteso, le libertà politiche poggino sul granito e quelle civili siano garantite dai limiti oggettivi posti alla sfera politica. Il sistema capitalistico, riconosce Stagnaro, non è «esente da difetti» e «le attività industriali» possono «produrre esternalità negative», fenomeni che richiedono «l’intervento correttivo della regolamentazione». Bene ma se è così, che senso ha la demonizzazione di quanti non condividono il fideismo globalistico, l’eurolatria, il panglossismo consumistico?
Grande invenzione, sicuramente, è la plastica ma le apocalissi ittiche di cui essa è responsabile sono mere “esternalità negative” e volerne ridurre l’uso è roba da oscurantismo ambientalista? Le «catene della grande distribuzione» hanno reso un indubbio servizio ai consumatori ma la scomparsa dei «piccoli esercizi di vicinato» non ha stravolto interi quartieri cittadini – a Genova, a Firenze, a Roma – con perdite innegabili e non solo sul piano culturale ma su quello dell’ordine pubblico? Insomma ogni mutamento sociale indotto dall’economia ha i suoi pro e i suoi contro: di qui la responsabilità che grava su ciascuno di noi, quando ci troviamo nella cabina elettorale, per decidere quale farmaco politico sia preferibile a un altro per curare i nostri mali sociali; ma di qui anche il dovere di evitare la Scilla del razionalismo alla Condorcet come la Cariddi del catastrofismo alla Leopardi.
L’aureo saggio di Federico Rampini, La notte della sinistra (Ed. Mondadori) – come già gli scritti di Luca Ricolfi – indica «da dove ripartire». E cosa pensare di «una sinistra pigra e autoreferenziale, |…| quella che passa il suo tempo a lanciare scomuniche, a levare alte grida d’allarme, contro la deriva autoritaria»
Dino Cofrancesco, Il Dubbio 4 aprile 2020