Rassegna Stampa del Cameo

Una storia meravigliosa: i miei sessant’anni di matrimonio

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Oggi, sabato 15 maggio 2021, mia moglie ed io festeggiamo, in lockdown volontario, pur essendo ultra-vaccinati, i sessant’anni di matrimonio (turtun della Val Nervia, pesce crudo appena pescato, torta mignon alla frutta). Da soli, perché la nostra famiglia (nuore, figli, nipoti) ha dieci membri, troppi per la legge.

Ci siamo conosciuti nel 1956, Lilli aveva 18 anni, io 21, a malapena ne dimostravamo 17. Il primo amore è invecchiato con noi, serenamente. Nei primi anni ogni sera, alle 18 finivo il turno all’officina 5 di Mirafiori, prendevo il tram speciale Fiat, “Mirafiori-Porta Nuova Express”, con zero fermate. Poi, a piedi, fino in Piazza Statuto dove lei lavorava.

Tenendoci per mano, con lentezza complice, ci avviavamo verso via Accademia Albertina, dove viveva con la mamma vedova, in una casa di ringhiera. Durante il percorso parlavamo fitto fitto. Quando scrissi Una Storia Operaia, insieme cercammo di ricordare cosa ci dicessimo in quei fitti dialoghi di quarant’anni prima: non ricordavamo più nulla.

Giusto così, gli innamorati parlano di tutto e di niente, sono parole-cipria le loro. Escono dal cuore e lì si depositano. Se il rapporto continua, e sono felici, significa che la cipria non si è fatta polvere. Ho sempre pensato che l’amore fosse questo, cipria o polvere. In certi casi, come il nostro, si è stati immersi nella cipria per tutta la vita, la polvere non ha mai potuto posarsi.

Cinque anni di fidanzamento, seppur “in purezza” (allora usava così, specie nella classe operaia che puntava a farsi piccola borghesia, l’educazione sessuale era rigida). Avevamo un solo obiettivo: sposarci e avere figli. Una sola modalità per arrivarci: lavorare e risparmiare. La data del matrimonio era “aperta”, condizionata solo dal livello dei risparmi.

Eliminammo i costi superflui: il vestito bianco con strascico (sic!), il ricevimento, il pranzo di nozze, a favore di mobili ed elettrodomestici. Un lunedì mattina, alle sette, le nostre mamme e i testimoni si trovarono, come carbonari, nella Chiesa Madonna degli Angeli, ove cento anni prima c’era stata la messa funebre dello scomunicato Conte Camillo Benso di Cavour.

Il viaggio di nozze fu breve, avremmo passato la nostra prima notte ad Apt, in Provenza. Volevo respirare l’aria del luogo dov’era nato mio papà, morto a 41 anni, figlio di due migranti andati a cercare lavoro in Francia. Tanto lavoro, tanti sacrifici, tanto disprezzo da parte dei francesi, nessun risparmio. Dieci anni buttati! Non la Francia giacobina di liberté, égalité, fraternité, ma la Fiat di Torino li salverà dalla miseria.

Apt, nel 1961, era un piccolo villaggio a una cinquantina di chilometri da Aix-en-Provence, adagiato sulle sponde del Calavon, circondato da bassi vigneti ben curati, e a cui la pioggia che ci accolse aveva dato un odore deliziosamente terragno. C’era una sola locanda, dove legno, pietra, edera si intrecciavano.

Non eravamo mai stati in un hotel, eravamo due imbranati, quando seppero che quel mattino ci eravamo sposati, ci dettero la “auberge suite”. Un letto alto e stretto, un baldacchino scricchiolante, due enormi abat-jour, un lavandino da camera in ferro battuto e brocca dell’acqua in ceramica floreale, una finestrella con pesanti tende, affacciata sui vigneti. A cena ci fecero omaggio dei calissons, i dolcetti provenzali a forma di losanga.

Una pioggia continua, che si rompeva ritmicamente sulle tegole, ci cullò per tutta la notte.

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