Mentre il decreto riguardante l’assetto delle università telematiche è ormai in dirittura d’arrivo, si assiste a una serie di iniziative da parte dei paladini dell’esistente e soprattutto degli interessi baronali consolidati. Nonostante il testo elaborato dalla ministra Anna Maria Bernini sia assai deludente là dove non riconosce la specificità del nuovo mondo accademico (obbligando a esami in presenza e a un 20% di lezioni in streaming…) e dove continua a “fare figli e figliastri” (con università in presenza che possono tenere corsi online, mentre le telematiche non possono istituire corsi in presenza), quanti sono animati dal sacro fuoco della difesa dello statalismo accademico stanno conducendo una campagna di stampa molto dura, con l’obiettivo di arrivare a risultati perfino più penalizzanti.
In particolare, nei giorni scorsi un’inchiesta del Corriere della Sera (un “Dataroom” firmato da Milena Gabanelli e Francesco Tortora) si chiedeva come mai in dieci anni le università online abbiano quintuplicato gli iscritti, mentre quelle tradizionali sono rimaste al palo. Nell’articolo una risposta non c’è, sebbene sia chiaro che le nuove realtà abbiano occupato un terreno che le università pubbliche ignorano. Oggi infatti può studiare anche chi lavora e gli atenei telematici offrono una possibilità pure a quei giovani che, dopo il diploma, devono mantenersi con un impiego part-time.
Quando la sinistra aveva ancora un qualche rapporto con i ceti più deboli, una simile domanda poteva essere evitata, ma ora le cose non stanno così. Se anche alla fine dell’articolo la domanda iniziale rimane lì sospesa e il lettore può ancora tormentarsi nel chiedersi come tutto ciò sia accaduto, Dataroom vuole comunque portare il lettore a ben precise conclusioni: che le nuove università sarebbero facili; che sarebbero sleali, poiché “risparmierebbero su stipendi e numero di docenti”; che godrebbero di protezioni politiche. Insomma, un disastro.
A sostegno dell’idea che sia più agevole laurearsi online si ricorda che il 44,8% degli iscritti alle telematiche finisce in tempo, mentre nelle altre università avviene nel 37,8% dei casi. Da anni però queste ultime fanno il possibile per migliorare un dato così mortificante, che segnala un fallimento. Le università online, che sono strutturate per studiare in modo più efficace (con video, dispense, slide, domande di verifica, tutor ecc.), dovrebbero allora vergognarsi di non far perdere anni ai loro studenti?
Il rapporto aggiunge poi che le università telematiche sarebbero scadenti e in merito si evocano due atenei online (di dimensioni ridotte) che hanno ottenuto dall’Anvur soltanto un accreditamento temporaneo “vincolato alla risoluzione delle criticità”: la Leonardo da Vinci e l’Italian University Line. Peccato che queste università siano private come Poste Italiane: la prima è l’emanazione di un ateneo statale, quello di Chieti, e la seconda è promossa da un consorzio composto da Indire (una realtà ministeriale) e da università pubbliche.
Non bastasse questo, si afferma che gli atenei telematici, “pur essendo aziende private, si spartiscono ogni anno in media 2 milioni di euro di contributi pubblici”. L’affermazione fa sorridere, se si considera che le università tradizionali costano al contribuente ben 8 miliardi di euro e soltanto il gruppo Multiversity – proprietario di tre atenei online – versa invece allo Stato ben 48 milioni di euro in imposte. Di cosa stiamo parlando, allora? Il giornalismo militante ama nascondersi dietro la pretesa oggettività dei numeri.
Eppure a un certo punto l’articolo la butta in politica, evocando legami con vari partiti ed esponenti politici del centrodestra e del centrosinistra, senza mai però citare le iniziative di rettori, Cgil e altri: si pensi alla proposta di legge di Avs contro le università che fanno profitti, per non parlare delle numerose prese del Pd, che da anni conduce una battaglia contro il pluralismo academico e la possibilità di avere atenei for profit. Neppure ci si chiede per quale motivo gli oltre 3mila atenei online americani, a cui si fa cenno nel pezzo (e che naturalmente godono di una libertà d’intrapresa molto superiore a quelle dei nostri atenei, compresi quelli pubblici e in presenza), non abbiano bisogno di cercare tutele…
Perché però la sinistra politica e mediatica – basti pensare a certi servizi di Report dei mesi scorsi – è tanto determinata nell’attaccare le telematiche e tutto questo a dispetto del fatto che, anche in tali atenei, gli orientamenti culturali siano prevalentemente favorevoli al progressismo e al politicamente corretto? Le ragioni sono due.
Innanzitutto la sinistra Ztl è schierata con quell’apparato burocratico di Stato che è timoroso di vedere svilupparsi università che non dipendano dal soldo pubblico e in tal modo mettano in evidenza i numerosi limiti del sistema pubblico. I rettori delle università in presenza della Crui, che in qualche caso si sono pure moltiplicati le indennità, hanno paura di perdere quel monopolio che garantisce loro anche un notevole potere, soprattutto legato al reclutamento di nuovi docenti.
Oltre a ciò vi è un problema culturale. La stragrande maggioranza dei professori delle telematiche, oggi, proviene dalle università statali e condivide la cultura di fondo dell’accademia italiana. In prospettiva, però, il moltiplicarsi di docenti e ricercatori legati con un contratto privato al proprio ateneo potrebbe incrinare il monolite statalista. Anche sotto il profilo gestionale, è importante aver presente che un’università privata non affida il 100% della gestione a chirurghi, filologi classici, biologi e geografi (come avviene negli atenei statali), perché quanti hanno investito i loro capitali hanno voce in capitolo. Soprattutto in settori come medicina (ma non solo), si tratta di veder venir meno importanti connessi con pezzi rilevanti dell’economia italiana.
Quello che i difensori dell’esistente temono, insomma, è un’iniezione di libertà e di mercato in quel mondo accademico che da decenni è egemonizzato da una parte: in passato schiettamente marxista e ora in vario modo progressista, interventista, tecnocratica, europeista ecc. Tutti questi aspetti della questione, ovviamente, Gabanelli e Tortora non li hanno visto né possono vederli, anche perché non ci si può certo inventare esperti di un mondo complicato come l’università. Questo è ancor più difficile, però, quando si è prigionieri di vecchie categorie ideologiche.
Carlo Lottieri, 2 novembre 2024
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