Siamo qui ad occuparci di Rosa Chemical e di Massimo Gramellini, il quale non se la prenderà se li mettiamo insieme visto che il pennino del Corriere è un fluidolirico. Rosa Chemical è l’ennesimo anfibio, come diceva Lino Banfi, coi baffetti che fa divertenti discorsi su quanto si senta anzi sia donna e, naturalmente, contro “i generi” e il maschilismo tossico (ma se uno pendola da n’omo a ‘na donna, da n’omo a ‘na donna, da n’omo a ‘na donna, i generi è segno che li riconosce, santa Madonna).
Gramella è Gramella e ogni mattina serve ai suoi lettori un caffettino scipito, come direbbe Montanelli, corretto al rum del neoconformismo perbenista. E allora giù con lo spieghino moralistico all’incauta di turno, certa parlamentare fratelliana Maddalena Morgante che vuol il signor Rosa Chimical fuori dal Sanremo, nientemeno, in quanto fluidone, dunque cattivo esempio, dunque pericoloso, per cosa non si sa. Se donna Giorgia cade, sapevatelo, non sarà per le menate della turbofinanza globale, dei Britannia, dei Davos, delle trame europeiste, dei Soros e dei potentati oscuri, così oscuri che li vedono tutti, ma, più veracemente, per le uscite dei suoi avventizi, gente che appena arrivata ha sniffato subito l’equazione potere-televisione, ci si è sballata e sarà difficile ricondurli a ragione, istituzionale e non. Questi sì che sono pericolosi, a modo loro.
Tutto ciò premesso, dati causa e pretesto, il piccolo Gramella addomestica da par suo la parvenu: non siete più all’opposizione, non potete più fare i censori, questo è stato totalitario, la solita granella di caffè per dire senza dirlo ah, siete i soliti fasci, tornate nelle fogne, siete un pericolo. Lo stato totalitario, evoca Gramella che per tre anni non l’ha visto, non ha visto niente quando un regime autoritario c’era davvero, era quello del prediletto banchiere di sinistra Draghi che ricattava la gente con misure stupide e farlocche. Ma questo lo sappiamo, così come sappiamo il moralismo for dummies di uno che quando scrive dà sempre l’impressione d’aver prima respirato abbondanti ispirazioni veltroniane, faziane, caschettiane, e perfino littizzettiane. Una cosa, guardi, così provinciale, così campanilistica, come direbbe l’avvocato Agnelli.
E fin qui, restiamo nel recinto del piddinismo banalista di cui il Corriere s’è fatto portavoce, qualcosa che non disturba neanche più tanto è scontato. Senonché Gramellini decide d’allargarsi e allora il vortice della retorica conformista lo inghiotte: “La fluidità esiste”, sostiene il barista dei piccoli caffè di pessimo gusto, “è presente dentro la società (tautologia vivace, della serie grazie al cazzo, dove dovrebbe essere presente sennò?), e in modo consapevole soprattutto nelle nuove generazioni che la sorella d’Italia vorrebbe proteggere dall’esposizione televisiva di Rosa Chemical. Il Festival, come i giornali, non crea la realtà. La fotografa. E da un partito di governo i cittadini pretendono che amministri i nuovi fenomeni, non che si illuda di rimuoverli cestinandone la fotografia”.
Ora, lasciamo perdere l’invito ad amministrare i nuovi fenomeni, che suona sinistro, ma sarà solo una pecca espressiva del nostro anchorman; ma “in modo consapevole”? Se c’è qualcosa di non consapevole in questa storia è proprio la fluidità. Che è diversa dall’omosessualità, dalla bisessualità diversa proprio in senso ontologico. La fluidità è puro business, è marketing, anche politico ma marketing: diversamente, non si capisce come venga propalata in modo tanto accanito fin dalle scuole primarie, non se ne capisce l’ossessiva pervasività in televisione, nello spettacolo, nella pubblicità, perfino nello sport dove viene presentata come una sorta di prerequisito (nella fusione firtuosa tra sport e spettacolo, vedi il caso della pallavolista Egonu abbonata a Sanremo).
La campagna psicomorale genera fenomeni del genere tragico-assurdo come quell’omicida scozzese che in galera, come sempre più accade, si è votato all’altro sesso, ma, non bastandogli visto che ancora è ritenuto pericoloso, ha finito per “percepirsi” una bimba e pretende il ciuccio e la manina dai secondini (accontentato/a). O come i maschioni che si sentono tate però in carcere le femmine le violentano allegramente. O come i sempre più adolescenti che, convinti a sentirsi cosa non erano, ne hanno avuto la vita rovinata e adesso non sanno come fare per riconquistarsela, effetto collaterale del boom spregiudicato e spesso cinico della chirurgia del transessualismo. Il genderfluid in questi termini è una moda e Sanremo ne è non la macchina fotografica ma uno dei demiurghi.
Su, andiamo, quanto bisogna tirarla lunga ancora con la storia del Festival che registra la società, che è lo specchio della società? Questo poteva essere forse in passato, diciamo fino agli anni Ottanta, Novanta, dopodiché Sanremo ha rinunciato a qualsiasi velleità di rappresentazione canora, del panorama musicale, per riciclarsi in vetrina ideologica, di quel conformismo apparentemente spontaneo, in realtà meticolosamente organizzato, che piace ai commentatori progressisti molto attenti alla carriera, a non farsi mai dei nemici.
Sanremo selfie sociale? No, non rispecchia, non ancora almeno, anche se ci punta, la congrega di chi assiste, questa ammucchiata di genderfluid canterino concentrato all’Ariston sotto la direzione del funzionario Rai Colletta, a certi ambienti talmente sensibile da avergli sacrificato i palinsesti. Smettiamola pure, una buona volta, di scambiare la causa con l’effetto: Sanremo non è, come non lo è la televisione, quello che vuole la gente ma quello che la gente subisce. E la gente non decide, non condanna, può snobbare un programma comune ma Sanremo, anche se gli proponi quaranta cantanti muti, lo guarda. Un ruolo di avanguardia, di orientamento moralistico che ai giornali non riesce più, ma che a una rassegna poderosamente controllata e calibrata dalla politica come il festivalino dei fluidi è congeniale.
Qui siamo al medium che impone il gusto se non il messaggio e basta averla bazzicata, la kermesse sanremese, per capirlo immediatamente e ad ogni sospiro. Che poi la società, o quello che ne resta, alla fine ne prescinda, che percepisca quel mondo un mondo diverso, alieno, che reagisca secondo le logiche tradizionali dell’eterna provincia italiana, è un altro discorso ed è precisamente quanto la grande comunicazione europeista e progressista s’impegna a sradicare.
Senza allargarsi ai giganteschi affari del relativismo totale e della scristianizzazione, che uno è libero di cogliere come fondamentali o pretestuosi, possiamo limitarci ad osservare che la varietà sessuale è certamente presente “dentro la società”, come dice Gramellini, lo è da sempre ma il genderfluid strategico e emulatorio, mimetico, è l’opposto di una situazione spotanea e finalmente sdoganata. È esasperazione a fini commerciali, ed è il nuovo conformismo di chi teme la messa al bando se non si adegua. Vi viene in mente qualcuno?
Max Del Papa, 3 febbraio 2023