I medici hanno voglia di parlare. “Debbo dirtene di quelle, guarda… Non se ne può più. Devi venire, una di queste sere”. E allora mi affretto, non sia mai che finisco positivo e in quarantena pure io, e una di quelle sere di mezzo inverno, che fuori si gela siccome c’è il riscaldamento globale, dopo il lavoro ci vado. Dopo il lavoro che per loro, i medici medicina generale, dura senza scadenza, come il green pass dopo il booster. A scadere sono loro, che da mesi, da un anno, da quanto non lo sanno più nemmeno loro non hanno più una vita, una famiglia, un calendario; qualcuno è sull’orlo di una crisi matrimoniale, i partner a un certo punto sbroccano, capisco tutto ma anche domenica no, anche di notte no.
Medici stremati
Ma mi fanno vedere i telefoni: solo su whatsapp, cinquanta, cento, duecento messaggi al giorno. Per Covid? Sì, ma non solo, c’è di tutto lì dentro, richieste assurde, manie di lunatici, profezie apocalittiche, invocazioni, minacce, pare un social. La gente è folle. La pandemia ha aperto il vaso di Pandora, ne sono usciti solo guai e adesso sono qui, in uno studio esausto, è sera tardi e ci sono loro, i dottori. Uno anche in videochat “perché sono positivo ma del tutto asintomatico e ditemi voi se invece di lavorare, curando chi sta male, debbo restarmene qui ad aspettare che passi un raffreddore”.
Sono amici e si vede. Debbono esserlo. Non sarebbero sopravvissuti altrimenti. “Due anni fa, di colpo, l’inferno: quattrocento chiamate al giorno, una su quattro grave, e già la burocrazia dei cervelli ministeriali cominciava a incasinare tutto. Sì, il virus all’inizio è stato spaventoso e pesante, li curavamo al telefono per il 90% noi medici di medicina generale, rilevando i parametri vitali, il saturimetro. Non si capiva cosa si dovesse fare e cosa ci consentissero di fare, per questo i protocolli li abbiamo lasciati dove stavano, almeno tra noi: scienza, coscienza e niente vigile attesa. Ci siamo coordinati tra medici di famiglia: ci hanno rimproverato di avere supertrattato i pazienti con troppi antibiotici e cortisone”.
Fortuna che il professor Speranza almeno loro lo hanno mandato a spasso, poi i risultati si sono visti. Ma hanno preferito sceneggiare il carosello dei furgoni, delle bare, dei cadaveri bruciati e senza autopsie. E quelli morivano intubati e chissà se proprio i respiratori non fossero il colpo di grazia. “Cercavamo di coinvolgere i familiari, di aiutarli a mantenere un atteggiamento razionale, perché in quella fase l’informazione non faceva che fomentare isteria e si leggeva, si sentiva di tutto e farli ragionare diventava impossibile. Da cui uno stress che non ti dico”. Già, ma i medici che andavano casa per casa c’erano, altri invece non rispondevano neanche al telefono, io me li ricordo, ricordo i racconti degli amici, dei lettori ghermiti da questo morbo senza paternità, che tutti si palleggiavano.
“Ma prendi la situazione adesso: l’agente patogeno è cambiato e che fai? Controlli febbre e saturazione, se i polmoni sono normali una visita ha anche poco senso. Anche allora c’erano un sacco di fraintendimenti, di bias, gente che respirava benissimo ma era suggestionata e faceva perdere tempo prezioso, era difficile capire, distinguere”. Sì, tutto bello, tutto narrativo ma io vorrei sapere, da cronista carogna, come ha impattato la burocrazia che poi è stata, e continua, la longa manus degli Speranza, degli esperti, di cosa non si è capito, dei consiglieri, dei comitati tecnici scientifici e della pletora di raccomandati della politica. I medici si guardano, sorridono: “Mah, all’inizio neanche tanto: potevamo fare il nostro mestiere, l’emergenza così repentina e incomprensibile ci spingeva a stringerci, a consigliarci. È stato un periodo traumatico ma anche esaltante, professionalmente importantissimo, ci siamo ritrovati una équipe senza neppure pensarci e il confronto era continuo. Imparavamo gli uni dagli altri – noi siamo uno studio associato con una decina di dottori. Siamo cresciuti, perché eravamo tutti responsabilizzati. Però che qualcosa non andasse, lo avevamo capito – no, temuto è la parola giusta – da prima”.
“Già dal 2019 vedevamo cose strane…”
Prima quanto? “Perché già dal novembre del 2019 vedevamo cose strane, polmoniti mai riscontrate prima. Come dici? Già dal 2019? Sì, hai ragione, sì, me lo ricordo. Poi dicevano che erano tutti complotti…”. Sì, d’accordo, però raccontata così pare una favola bella, i medici eroici che si aiutano e salvano il mondo o almeno la gente, la loro gente, i loro pazienti. E il governo li lascia fare e tutti sopravvissero felici e contenti: quelli che ce l’hanno fatta. “E no, perché arriva l’estate 2021, te lo ricordi?, quando tutto pare finito, la situazione normalizzata, la vita che riprende. A quel punto la gente torna a chiedere per tutte le altre malattie, anche quelle che richiedono esami specialistici; la situazione si ingolfa, il sistema va in tilt”. Per sistema, i miei dottori intendono il Sistema, maiuscolo, per dire il centro di potere che non lo afferri, non lo raggiungi ma ti raggiunge e ti rende la vita impossibile, fa cadere dall’alto le sue regole idiote o farabutte e poi se la veda chi sta “sul territorio”, come si dice.
Il caos burocratico
“Prestazioni dirottate in toto a noi medici sul territorio: abbiamo dovuto riprogrammare tutto, accollarci gli esami, le prenotazioni, le assistenza prima e dopo; interi reparti erano chiusi e tutto si riversava su di noi: analisi, diagnosi, terapie. Lo ‘specialistico’, lo abbiamo ereditato; e ci è rimasto. Già così annaspavamo, poi la burocrazia ha sbroccato veramente: i piani terapeutici specialistici addosso a noialtri, le note Aifa per i farmaci di comune impiego. Ti faccio un esempio: hai la bronchite, devi andare in spirometria. Che però è ancora chiusa ‘causa Covid’. Quindi torni da me e debbo pensarci io. Prenotazioni, tamponi, adesso anche lo sblocco del green pass. Perché si è passati da 48 ore a 10 giorni per il rilascio, è saltato tutto e da chi va il paziente che non se lo vede arrivare? Viene qui, mi pare chiaro. Solo che noi non siamo pubblici ufficiali. Il green pass dovrebbe essere automatico, così ce lo hanno venduto. Ma così non è, più spesso che no”.
E mi guardano con occhi tutti uguali, gli occhi fondi come laghi di chi ha perso troppe ore di sonno e sa che non è ancora finita. Ma lasciamoli parlare, lasciamoli sfogare questi medici tante volte accusati di essersene sbattuti, “ah, non mi ha neanche richiamato, non è venuto mai e io stavo per stenderci le gambe”. A volte, magari anche sovente è stato vero, non sempre è stato vero. “Il tampone positivo va in farmacia e viene trasmesso al Sistema: i pazienti senza green pass si incazzano, ma con chi? Con noi, perché non trovano interlocutori. ‘Ah, devo tornare al lavoro’, ma noi non possiamo emettere certificato di guarigione o meglio non più, prima eravamo abilitati. Poi qualche testa ha deciso che no, bisognava passare dal labirinto burocratico telematico, insomma il Sistema, col quale però non possiamo veramente interagire. Il paziente deve andare all’ufficio di Igiene all’alba e siccome sono in tanti restano lì, ore, ore, fino al tramonto. Non c’è logica: invece di dare la precedenza al quarantenne che santo cielo deve lavorare, li mettono in fila, in ordine burocratico, tutti uguali. Quando le esigenze sono tutte speciali”.