Tutte queste considerazioni resterebbero confinate nell’alveo di noiose pubblicazioni scientifiche se la vaccinazione antiCovid dei giovani fosse un atto volontario, senza alcuna pressione da parte delle istituzioni. Ma quando, con l’introduzione del green pass, le famiglie italiane, caso pressoché unico al mondo, sono state messe di fronte all’alternativa di far fare ai propri figli una vita normale (accedere ai trasporti, fare sport, andare a musei ed eventi, o anche semplicemente mangiare una pizza con i compagni) o, invece, ghettizzarli in quanto non vaccinati, la “scelta” dei genitori italiani è stata obbligata. Sono stati pochi, però, quelli che hanno deciso consapevolmente di non vaccinare i propri figli a fronte di una mortalità da Covid praticamente inesistente (lo 0,0003%) nella fascia 0-19 anni. Un po’ meno entusiasta l’adesione alle terze dosi, che nel nostro Paese sono state somministrate “solo” al 44% dei giovani della stessa fascia d’età.
Sia chiaro: soltanto in Italia Aifa e istituzioni hanno abbracciato entusiasticamente la vaccinazione di massa di bambini e ragazzi, al punto da dichiarare pubblicamente, come ha fatto Giorgio Palù, che “il Covid è diventato una malattia pediatrica” (sic). Regno Unito, Norvegia e Taiwan hanno sospeso le somministrazioni della seconda dose di mRNA sugli adolescenti e in Norvegia le somministrazioni ai guariti di 12-15 anni sono state bloccate; la Danimarca è tornata sui suoi passi sulle dosi dai 5 agli 11 anni, così come la Svezia. In altri Paesi europei, enti regolatori come lo Stiko tedesco e il JCVI britannico hanno provato a fare muro contro le forti pressioni dei rispettivi governi pro vaccinazione di massa dei giovanissimi. Non ci sono riusciti, ma almeno ci hanno provato.
Maddalena Loy, 27 aprile 2022