L’Fda è favorevole a vaccinare con Pfizer i bambini dai 5 agli 11 anni. Lo stesso ha deciso ieri il Centers for Disease Control and Prevention Usa. Ma non tutti sono d’accordo, come vi avevamo raccontato sul nostro sito. Uno dei componenti del comitato consultivo dei Cdcp, infatti, si è astenuto al momento del voto, così come in Fda aveva alzato paletta bianca Michael Kurilla, direttore della divisione innovazione clinica del National Institutes of Health. “Ritengo che i dati sulla sicurezza e l’efficacia” del vaccino “presentati da Pfizer siano ancora limitati”, ha spiegato Kurilla. “Per i bambini sani l’equilibrio tra rischi e benefici non è ancora chiaro”.
I punti da tenere a mente qui sono due.
1. Il rischio che corrono i pargoli infettandosi col coronavirus. Come noto, la stragrande maggioranza di loro non se ne accorge nemmeno, diventa positivo ma non sviluppa la malattia: nemmeno un piccolo sintomo.
2. Come dice Kurilla, “i dati in nostro possesso indicano come il 40% dei bambini under 12 potrebbe già essere stato infettato da Sars-CoV-2”. Dunque avrebbe già sviluppato un certo grado di immunità.
Ha senso dunque vaccinarli? E soprattutto: i dati degli studi sono sufficientemente solidi? Perché iniettare un siero a un bambino a senso solo se i vantaggi, come nel caso dei più anziani, superano i rischi. “Ritengo che i dati su sicurezza ed efficacia presentati da Pfizer siano ancora limitati – dice però l’esperto Usa – Del resto anche Eric Rubin, del New England Journal of Medicine e membro del comitato Fda, ha detto che ha ‘votato a favore con un peso sulla coscienza’. Il basso rischio Covid per i bambini è da valutare meglio rispetto al potenziale rischio di reazioni avverse, come la miocardite grave. È un evento molto raro, ma negli adolescenti l’incidenza è comunque lievemente superiore a quella riscontrata negli adulti, soprattutto nei maschi. Ma c’è da considerare che, mentre i dati di Pfizer per i bambini sono stati raccolti su 1.518 soggetti testati, nel caso dei giovani adulti parliamo di un campione molto più ampio: circa 6-9mila”.
Differenza non proprio di poco conto. Anche perché lo studio valuta l’efficacia “interamente sui casi sintomatici”. Il problema è che, come prevedibile, né nel gruppo trattato con placebo né in quello vaccinato “ci sono stati casi di malattia grave”. Dunque “non è stata possibile valutare la protezione dalla malattia grave, ma solo dal contagio“. Inoltre, spiega Kurilla, “poiché il test era limitato ai sintomi riconosciuti, non è stato possibile valutare l’entità della protezione dalle infezioni asintomatiche”. Cioè quelle più frequenti nei bambini.