Luca Lotti che contesta le “scuse vigliacche”; Alessia Morani che rifiuta un seggio non sicuro (come non capirla: visti i meriti guadagnati sul campo, dovevano paracadutarla in qualche collegio blindato); Monica Cirinnà che prima rinuncia e poi rilancia la sua candidatura. La composizione delle liste del Pd somiglia alla riunione di condominio di Fantozzi: tutti arrivano all’appuntamento fatidico tra carinerie e frasi di circostanza, ma quando si va al sodo, vengono fuori astio, rancori, ruggini, conti in sospeso da regolare.
Il partito sta letteralmente scoppiando in mano al segretario, Enrico Letta. È il solito Osho, il miglior commentatore politico: in una sua vignetta, ha mostrato l’ex premier mentre saluta la consorte per andare a definire le candidature, indossando un elmetto. Proprio come Fantozzi, appunto.
E ai malumori degli esclusi o agli isterismi di chi, tipo la Cirinnà, rimane in corsa quasi per ripicca, si somma la difficoltà di giustificare ai propri elettori il complesso puzzle ideologico messo in piedi in vista delle elezioni. E che difficilmente potrà essere tenuto insieme dal solo imperativo di “arginare le destre” e impedire il “ritorno del fascismo”. Alludiamo, ad esempio, al tentativo di far combaciare il lancio di Carlo Cottarelli (agenda Draghi) e quello delle sindacaliste Susanna Camusso e Anna Maria Furlan (in teoria, nemiche dell’austerità e del rigore); la rassicurante identità atlantista con l’alleanza con gli anti Nato, Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli; il panegirico di Roberto Speranza, che Letta considera “il nostro punto di riferimento”, con la decisione di piazzare, nella circoscrizione Europa, la virostar Andrea Crisanti, il quale da mesi sostiene l’esatto opposto di quello che fa il ministro di Leu.
Le mine che non sono ancora esplose, ovviamente, possono essere il preludio di una gigantesca deflagrazione a urne chiuse. A dar retta ai sondaggi meno rassicuranti, i quali parlano di una vittoria a valanga della destra, il repulisti anti renziano e la fidelizzazione dei candidati, piuttosto che mettere il Pd saldamente in mano al suo leader, rischiano di gettare discredito su un uomo che del senso di strategia, tradizionalmente, non ha fatto un punto forte. Poteva bastare molto meno di quello che è accaduto fino a oggi, a cominciare dalla figuraccia rimediata con Carlo Calenda, per mettere in discussione la segreteria di Letta. Possibile che il pacioso “francese”, rimpatriato dalla Sorbona, si stia avviando ad ampie falcate verso la sua caporetto?