(Dalla prefazione di Lodovico Festa a “Verso la fine del mondo” di Giulio Sapelli, edizioni Guerini e associati)
Il mondo dei nostri giorni non può essere letto come un ritorno agli anni Venti e Trenta, con annesse argomentazioni su fascismi e deriva burocratica dell’Unione Sovietica. La fase della storia che stiamo vivendo è di fatto analoga a quella della fine Ottocento, inizi Novecento. Si agitano spiriti scatenati come ai tempi della Belle époque: da una parte nichilistici (non esiste la verità, non servono i valori morali), dall’altra positivistici (non serve la politica, non aiutano le riflessioni morali bastano le competenze, basta la scienza, bastano i tecnici).
Circa centoventi anni fa la globalizzazione negli scambi commerciali raggiunse livelli analoghi agli attuali. In quel periodo la crisi dell’impero ottomano preparò la crisi dell’impero asburgico e di quello russo: con alcune simmetrie non distanti da realtà che caratterizzano i nostri giorni. L’impero britannico considerò consolidata la sua egemonia sul mondo e per un lungo periodo fu indifferente alla crescita della nuova potenza prussiano-tedesca.
Parte considerevole delle classi dirigenti di allora, pur accettando il sistema democratico (a lungo fondato peraltro su una base sociale assai ristretta) guardava con fastidio al crescere di movimenti popolari autonomi di orientamento socialista e laburista ma anche, in certi casi, in Italia e in parte in Francia, cattolici. Il proponimento dei più avvertiti uomini liberali di allargare le basi dello Stato veniva guardato con sospetto. I «populisti» di allora, i neri di Luigi Sturzo e i rossi di Filippo Turati, erano malvisti persino da giornalisti di qualità peraltro perfetti interpreti degli orientamenti della borghesia industriale del Nord, come Luigi Albertini.
E in quel contesto supponenza, astrattezza condite da volontà di potenza non imbrigliata dalla ragione fecero la loro prima vittima: la diplomazia.
Fine Ottocento, inizi Novecento sono caratterizzati dall’esaurirsi dei compromessi diplomatici, politicamente regolatori delle potenze europee, apprestati dal congresso di Vienna. Un’intesa che consentì all’Europa quello che Karl Polanyi ha definito il secolo della pace (dal 1815 ap- punto al 1914).
Alla guerra si arrivò da sonnambuli, considerandola al massimo un piccolo incidente, che re e imperatori, tutti cugini tra loro, avrebbero sbrigato rapidamente, magari disciplinando anche un po’ ceti popolari con troppe pretese.
Invece il macello del 1914-1918 (anche per quel tocco di follia militaristica tipica degli Juncker prussiani) provocò una catastrofe nel vecchio continente tale da segnare poi più o meno tutto il XX secolo: così la radicalizzazione di ampi settori dei ceti popolari, così lo sbandamento della migliore cultura scossa dalle stragi, così l’affermarsi di un socialismo militarizzato in una nazione centrale per gli equilibri europei come la Russia, così il decollo di tendenze controrivoluzionarie che alimentarono soluzioni autoritarie.
Questa è la miscela nata nelle trincee di Francia, Italia, Germania, Russia, Polonia e così via, poi perfezionata dallo stolto revanchismo francese combinato con il fatale, svagato idealismo di un Thomas Woodrow Wilson alla ricerca di una pace perpetua «kantiana», e invece incubatore, con i suoi micronazionalismi, dei fattori decisivi per trasformare una delle ricorrenti crisi economiche del capitalismo nella catastrofe del 1929 con i suoi tragici esiti: innanzi tutto il demoniaco regime hitleriano e poi l’altro macello del 1939-1945.