Vi spiego chi ha ucciso il liberalismo

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Un mio precedente articolo aveva suscitato un certo dibattito e alcuni lettori, non condividendo, avevano creduto opportuno ricordarmi i sacri autori del liberalismo (che, si badi, è cosa diversa dal liberismo). Tra i quali c’era Edmund Burke, il primo critico della rivoluzione giacobina. Nessuno però aveva menzionato l’altro grande critico della Rivoluzione francese, a mio avviso anche più geniale: Augustin Cochin e il suo Meccanica della rivoluzione. Ebbene, proprio da questo autore prendeva le mosse la mia analisi.

Il liberalismo è un fiume che scorre in una stretta gola, le cui pareti sono l’anarchismo da una parte e il totalitarismo dall’altra: finché si tiene saldamente la barra dritta, nessun problema. Ma non c’è bisogno di essere marinai per sapere che se si devia, pur impercettibilmente, verso la prima sponda, la reazione, anche istintiva, porterà a quella opposta. Che pure la democrazia possa diventare totalitaria non è una mia scoperta, non pochi pensatori se ne sono accorti già da tempo. E non c’è neanche bisogno di far notare quanta pena si diano i regimi e i partiti marxisti nel definirsi «democratici». Gli ultimi arrivati sono i «dem» statunitensi, che non a caso da quelle parti vengono detti liberals. Le ultime elezioni e l’accanimento su Trump, reo di essere votato dal popolo e non da Hollywood, i media e gli  artisti, hanno mostrato chiarissimamente che la sinistra americana è giacobina e guai a chi non si adegua. Non sono profeta se dico che Trump dovrà d’ora in avanti stare attento anche a come parcheggia, perché uno (pericoloso, per i «dem») come lui non deve più nascere. Si potrebbe fare spallucce, in fondo sono fatti loro.

Invece no, perché la «cultura» americana diventa sempre quella di tutto l’Occidente. Sono finiti i tempi  in cui America voleva dire libertà e i giovani della Cortina di Ferro sognavano i blue jeans e il rock’n’roll. No, adesso chi non si adegua ai dettami del politically correct rischia anche il carcere. Si deve pensare e comportarsi come dicono loro, così come era ai tempi di Robespierre quando venivano abbattute le statue dei re, bruciati i libri dell’Ancien Régime, modificato il calendario, cambiate pure le carte da gioco coi re e le regine. Ma come è potuto succedere, questo, in un’America che pur non aveva avuto una rivoluzione giacobina? Tutto cominciò nel 1935.

In Germania esisteva un istituto universitario dedito alla ricerca sociale, la famosa Scuola di Francoforte, dove insegnavano personaggi come Max Horkheimer e Theodor Adorno. Poi vennero Herbert Marcuse, Eric Fromm, Wilhelm Reich, coniatore dell’espressione «rivoluzione  sessuale». Detta Scuola, apertamente marxista, sentì il terreno scottare quando Hitler divenne cancelliere. E accettò il caloroso invito della Columbia University a continuare la sua attività a New York. Cioè, in quella che sarebbe diventata la culla, e la fabbrica, della cultura occidentale. Si dimentica che il «maggio francese» ebbe come antecedente i moti studenteschi di Berkeley, Usa. E in quel «maggio» contro la polizia venivano lanciate copie di La psicologia di massa del fascismo, di Reich.

Dopo due soli anni il famoso scrittore e giornalista Tom Wolfe coniava l’espressione «radical chic»: aveva assistito a un party di gala nel lussuoso attico a Manhattan di Leonard Bernstein, premio Oscar per le musiche del film West Side Story. Vi si raccoglievano fondi per finanziare le Black Panthers, l’ala estremista, e di orientamento marxista, della protesta nera. Il senatore Joseph McCarthy non aveva poi tutti i torti nell’indagare le derive marxisteggianti nella «cultura» e nelle «arti» americane. Ma ancora oggi il suo nome è marchiato d’infamia, visto che la «cultura» e le «arti» sono saldamente in mano ai figli e nipoti di quelli che lui indagava. Adesso a Hollywood le parti sono rovesciate: a dover nascondersi sono i (pochi) registi e attori non liberals.

Clint Eastwood è l’unico nome che venga in mente, ma se può ancora lavorare è solo perché i suoi film portano soldi. E poi ha novant’anni, ed è senza eredi. Oggi le statistiche dimostrano che la parola «socialismo» negli Usa non è più un tabù: moltissimi giovani lo auspicano per l’America e sono quelli che hanno votato per Bernie Sanders. Questa è la prossima generazione.

Ma allora, direte voi, tutto risale alla Scuola di Francoforte? No, perché anche quei pensatori avevano a loro volta un ispiratore, il nostro Antonio Gramsci. Che è, ancora oggi, uno dei filosofi più letti nelle università americane. La via gramsciana verso il socialismo passava appunto attraverso la «cultura». E «socialismo» non è solo la forma sovietica o cinese. C’è anche il «socing» di Orwell. Che negli States si chiama, per ora, politically correct. Siamo solo all’inizio, ma mi auguro di non avere ragione.

Rino Cammilleri,

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