Ieri è iniziato il processo a Filippo Turetta, assassino reo confesso di Giulia Cecchettin. L’unica notizia degna di nota sono le dichiarazioni del procuratore capo di Venezia che prima di dare il via alle danze legali ha messo in chiaro alcune cose. E posto dei paletti al circo mediatico. “Questo non è un processo contro i femminicidio – ha detto – ma contro il singolo che si chiama Turetta e che risponderà dei reati che gli sono contestati”.
Il che non farà piacere a Elena Cecchettin e alle femministe secondo cui “tutti gli uomini devono fare mea culpa”. Ricordate? Ricordate Valeria Fonte convinta che “è il genere di appartenenza a determinare la responsabilità”? Il pm Bruno Cherchi ha poi aggiunto: “Se si sposta questo quadro a obiettivi più ampi si snatura totalmente il processo. Il processo non è uno studio sociologico, che si fa in altre sedi, il processo è l’accertamento di responsabilità dei singoli”.
In realtà sarebbe una banalità giuridica, ma non in Italia, dove spesso la pubblica accusa punta alla “spettacolarizzazione” del processo per trascinarlo su altri ambiti ed erigersi così a giudice morale del bene e del male. Vedi il caso Toti. O il caso Open Arms, col procuratore aggiunto che in Aula legge in maniera teatrale i nomi dei migranti ritenuti offesi e si prodiga per “difendere i confini del diritto”. Manco fosse un comizio di Avs.
E guardate, a dirlo non è chi scrive, che conta come il due di coppe quando briscola è bastoni e potrebbe essere di parte. Bensì Cataldo Intrieri, avvocato, nientepopodimeno che sul Domani, giornale non esattamente di pedigree garantista. “L’ideologia di una visione militante del proprio ruolo – scriveva – è un vecchio retaggio di una forte componente della magistratura”. Tradotto: una fetta delle toghe interpreta il proprio compito, e i processi, più con spirito sociologico – e politico – che giuridico. Almeno sappiamo che a Venezia, nel caso Cecchettin, si limiteranno a giudicare Turetta. E non il maschio in generale.
Giuseppe De Lorenzo, 24 settembre 2024
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