Esattamente dieci anni fa, in Italia è stato introdotto un regime fiscale intelligente e funzionante, la cedolare secca sugli affitti abitativi, una sorta di flat tax per i redditi da locazione. Invece di estenderlo al settore commerciale, che ne avrebbe bisogno come dell’aria, c’è chi vuole eliminarlo (o modificarlo in peggio) pure per le case.
Pregiudizi ideologici
Si potrebbe sintetizzare in questo modo quello che sta accadendo da qualche settimana nelle audizioni sulla riforma del fisco in corso presso le Commissioni Finanze del Senato e della Camera. Tranne poche eccezioni (fra cui Confedilizia, ovviamente), la cedolare è stata attaccata – da studiosi, enti e qualche parlamentare – con argomentazioni a dir poco discutibili. A fondamento di esse c’è spesso un micidiale mix di astrattezza (per non dire ignoranza), ideologia e pregiudizio, che porta gli autori delle critiche a questo sistema di tassazione a non scorgerne gli evidenti elementi di positività, di gran lunga preponderanti rispetto a qualsiasi, possibile aspetto negativo.
Il giochino più diffuso è quello di contestare l’efficacia della cedolare in termini di “emersione del sommerso” – che, secondo molti, sarebbe l’unica ragione di esistenza di questo regime fiscale – e di perdita di gettito rispetto al sistema Irpef. Dicono: non è emerso abbastanza “nero”, la cedolare fa perdere entrate allo Stato, eliminiamola.
Effetti virtuosi
Ora, volendo stare a questo argomento, è bene riportare quanto da ultimo evidenziato nella “Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva” allegata alla Nota di aggiornamento 2020 al Documento di Economia e Finanza (predisposta dal Ministero dell’economia e delle finanze) a commento degli effetti della cedolare, descritta come una misura che “ha coniugato semplificazione e riduzione del peso fiscale”. L’introduzione di questo regime tributario – rileva il rapporto – ha determinato “un cambiamento nei comportamenti dei contribuenti, orientati verso una maggiore compliance fiscale. A seguito di questo mutamento di comportamento, nonostante l’introduzione dell’aliquota ridotta, il gettito derivante da locazioni non ha presentato flessioni di rilievo nel corso del tempo” (N.B. per “compliance fiscale” si intende l’adempimento spontaneo agli obblighi tributari da parte del contribuente).
Ciò detto, se pure fosse vero che la cedolare produce meno gettito fiscale rispetto a quello che deriverebbe dall’applicazione dell’ordinario trattamento Irpef, questo non sarebbe un motivo sufficiente per eliminare un regime speciale di tassazione, qualora tale regime avesse delle implicazioni positive dal punto di vista economico e sociale. Gli investimenti finanziari, ad esempio, sono tassati in modo ben inferiore rispetto ad altri redditi, ma è ovvio che i vari “legislatori” hanno ritenuto che differenziarne in positivo l’imposizione consente di evitare che i risparmi di cittadini e imprese volino verso altri lidi. Analogamente, mantenere l’attuale regime di tassazione sostitutiva per le locazioni abitative attiene alla sua riconosciuta efficacia in termini di estensione dell’offerta abitativa, che è ora – tra l’altro – a rischio di fortissima riduzione a causa della sfiducia generata negli investitori e nei risparmiatori dal blocco generalizzato degli sfratti.
Perché la cedolare secca
La prima cosa da dire, quindi, è che lo scopo della cedolare non è né l’emersione del sommerso (peraltro ampiamente avvenuta, come visto, e comunque positiva) né – soprattutto – la parità di gettito rispetto a ciò che produrrebbe la tassazione Irpef (peraltro pressoché verificatasi, come pure visto). Quest’ultima è una visione ragionieristica del fisco, che almeno la politica non dovrebbe avere.
Ha detto poi bene il professor Giuseppe Melis, ordinario di diritto tributario all’Università Luiss Guido Carli, intervenendo in audizione proprio nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulla riforma fiscale (una delle mosche bianche pro cedolare citate sopra): “La cedolare secca sugli affitti ha una prima, essenziale funzione: quella di ripristinare una parvenza di rendimento a un investimento immobiliare che, altrimenti, mancherebbe di qualsivoglia appetibilità”.
E già, perché l’attuale regime sostitutivo – basato sulle due aliquote del 21% per le locazioni a canone libero e del 10% per quelle a canone calmierato – determina un carico di imposizione sulle locazioni abitative appena sufficiente a garantirne la sopravvivenza, posto che la tassazione del reddito da locazione non può essere pensata senza considerare gli ulteriori pesi che gravano sui locatori, sia in termini fiscali – è il caso dell’Imu, imposta patrimoniale non deducibile né detraibile – sia in termini di oneri di manutenzione e simili.
Ma di questi aspetti – Imu e oneri di manutenzione, che rendono l’investimento immobiliare del tutto diverso, e quindi bisognoso di una tassazione più moderata, anche rispetto a quello finanziario – i nemici della cedolare si disinteressano, dimostrando anche degli enormi limiti dal punto di vista della capacità di analisi (a parte i casi di evidente malafede).
Insomma, nel comparto abitativo la cedolare secca sugli affitti, oltre a determinare una significativa emersione del sommerso (come certificato dal Mef), ha consentito l’esistenza di un’offerta abitativa diffusa, frutto dell’investimento realizzato non già dai rentier di cui favoleggia qualche commentatore poco al passo coi tempi, ma da lavoratori dipendenti, professionisti e pensionati a reddito medio-basso (anche questo lo dicono i dati del Mef: il 57% dei locatori ha un reddito entro i 26.000 euro lordi annui). E chiunque abbia un minimo contatto con la realtà è consapevole del fatto che, senza cedolare, l’affitto abitativo entrerebbe in crisi, così come era avvenuto per quello ad uso diverso anche prima della pandemia, patendo – oltre a una tassazione sovrabbondante (persino sui canoni non percepiti) – un vincolismo esasperato nelle regole contrattuali, risalente addirittura alla legge sull’equo canone del 1978.
Per questo, anziché pensare a peggiorare o addirittura ad eliminare la cedolare per gli affitti abitativi, la politica dovrebbe impegnarsi per estenderla a quelli commerciali. I motivi sono noti, e aggravati dalla pandemia. Le imposte statali e locali (almeno 6: Irpef, addizionale regionale Irpef, addizionale comunale Irpef, Imu, imposta di registro, imposta di bollo) raggiungono un livello tale da erodere gran parte del canone di locazione, anche per via della ridicola deduzione Irpef per le spese, attualmente pari al 5% (!). Un onere che aumenta ulteriormente se alle tasse si aggiungono, appunto, le spese (di manutenzione, assicurative ecc.), alle quali il proprietario-locatore deve comunque far fronte, e l’eventuale indennità di avviamento (senza considerare il rischio morosità e quello di sfitto).
Giorgio Spaziani Testa, 29 marzo 2021
Ps Su chi, per contrastare la cedolare secca, usa l’argomento del “favorisce i ricchi”, non è il caso di soffermarsi. Questione di decenza.