In questi ultimi mesi, Novak Djokovic è stato la spada di Damocle del pensiero unico mainstream. Prima contrario a qualsiasi forma di discriminazione attraverso obblighi vaccinali e passaporti verdi; oggi, in aperta polemica con chi vuole imporre sanzioni ai russi. Eppure, in entrambi i casi, pare essere il fuoriclasse serbo l’unico ad affermare i principi che più si avvicinano al liberalismo occidentale. Nel primo caso, Djokovic sosteneva la necessità di riservare la libera scelta vaccinale al singolo atleta, senza giudicare un tennista dal possesso o meno di una certificazione; nel secondo, ricordando come la storia, la cultura, la tradizione liberale dell’Europa, con la quale essa ha sconfitto il blocco sovietico, si fondino proprio sul pluralismo delle idee, sul “melting pot” di derivazione newyorkese, sulla sana competizione tra tutti gli atleti mondiali, indipendentemente dalla propria nazionalità ed identità.
Il procedimento di cancel culture, sempre di origine americana, sta portando l’alleanza atlantica a seguire l’altra riva del fiume, quella che più la avvicina malauguratamente al blocco dei regimi asiatici, al mondo dell’unanimità, delle responsabilità dei genitori che ricadono sui figli. Paradossalmente, la risposta più grande alle violenze perpetrate dal regime putiniano sarebbe quella di permettere a tutti gli atleti, musicisti, autori russi di alzare ancor di più la propria voce, la propria possibilità di partecipare da protagonisti nella vita sociale e culturale europea, di raccontare al mondo le differenze tra ciò che è una comunità coperta – Russia – ed un’altra aperta – Europa.
Quella libertà sembra ormai sostenuta da pochi eletti, ma è pur sempre doveroso difenderla. Si badi bene: i censurati di oggi sono i russi, quelli di domani potremmo essere noi.
Matteo Milanesi, 21 aprile 2022