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Lettere (Yonathan Netanyahu)

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In questo momento in cui Israele è sotto attacco, è giusto evocare uno dei suoi più grandi eroi. Nel 1976 un’unità scelta dell’esercito israeliano atterrò in piena notte nell’aeroporto della città ugandese di Entebbe per liberare più di cento ostaggi ebrei e israeliani tenuti lì da terroristi tedeschi e palestinesi dopo il dirottamento di un volo partito da Tel Aviv e diretto a Parigi. A guidare quell’impresa era un giovane tenente colonnello, comandante di Sayeret Matkal, la più prestigiosa unità dell’élite dell’esercito israeliano. Il suo nome era Yonathan Netanyahu. Yonathan (Yoni) fu l’unico caduto israeliano di quell’operazione perfetta che il giorno dopo venne salutata come un’impresa epocale da tutti i media occidentali.

Il nome di Yoni, fino ad allora sconosciuto, divenne in Israele sinonimo di eroe. Allora i suoi familiari, tra cui il fratello Bibi attuale Primo ministro d’Israele, per rendergli omaggio e farne conoscere la personalità decisero di raccogliere le lettere che dai diciassette anni fino a pochi giorni prima di morire, Yoni aveva inviato ai suoi cari. Dalle lettere (pubblicate in italiano da Liberilibri) emerge una sorta di romanzo epistolare di formazione di un giovane che, dopo essere stato plasmato dalla storia del proprio Paese, l’avrebbe a sua volta plasmato con l’eccezionalità della sua impresa e del suo carattere. Nelle lettere c’è tutta la trasformazione di un giovane intellettuale in un grande combattente, che altro non voleva fare se non difendere l’esistenza del suo Stato e della sua gente. Un percorso perfetto e brutale, mai dimenticato.

Visitando il cimitero militare di Gerusalemme, appoggiato su un fianco del Monte Herzl, la tomba di Yoni, una tra le tantissime tutte identiche le une alle altre, si staccava soltanto per la quantità di sassolini depositati sopra di essa, a testimonianza della quantità di persone passate di lì a dare il loro rispettoso saluto a questo giovane eroe. Un eroe autentico, classico, epico. Un eroe di quelli che l’Occidente, per anni, ha tentato di dimenticare, di deridere, di rimuovere attraverso l’oscenità brechtiana “beato il Paese che non ha bisogno di eroi” e sostituendo a questa epica dell’individuo eccezionale quella dell’“eroe normale”, che poi non si capisce bene cosa significhi.

Un’eventuale sconfitta, per Israele, non ha mai avuto lo stesso significato che poteva avere per qualsiasi altro Paese per cui una disfatta militare significa ridimensionamento dei confini o perdita di influenza. Per Israele, la sconfitta ha sempre coinciso con l’annientamento, per questo è sempre stato costretto a vincere, anche quando tutto sembrava perduto Israele ha sempre trovato il coraggio disperato ma lucido per sopravvivere e andare avanti.

Nelle lettere di Yoni c’è il dipanarsi di un racconto epico. Iniziano dal 1963 quando Yoni era con la famiglia negli Stati Uniti dove il padre Benzion, grande storico si trovava per fare ricerca. La prima lettera la scrive dai sobborghi di Philadelphia a un suo ex compagno di classe di Gerusalemme. Da qui, come in tutte le altre lettere del suo anno americano, si sente un costante desiderio di fare ritorno in patria. Non importa se la famiglia, a cui pure era legatissimo, si trovava lì con lui. Era alla sua terra che Yoni voleva costantemente ritornare. Ritornare per difenderne l’esistenza. E questo accadrà l’anno successivo.

Nell’estate del 1964 ritorna in Israele, da solo, perché la famiglia era rimasta negli Stati Uniti, per iniziare il servizio militare. Sarà il momento che cambierà tutto. Dalle sue lettere non traspare mai uno spirito militarista, anzi, a volte si avverte il disagio per una vita che non sente interamente sua e, fino a pochi giorni prima della sua morte, fino alle sue ultime lettere, si troverà sempre il desiderio di questo giovanissimo tenente colonnello, comandante di Sayeret Matkal, di fare ritorno alla vita civile. Perché questo è il punto. Yoni non era uno studente qualsiasi. Era stato ammesso ad Harvard e aveva ricevuto lettere d’invito da Yale e Princeton. Finito il servizio militare, obbligatorio per ogni israeliano maggiorenne, avrebbe potuto fare ritorno ad Harvard, dove aveva iniziato gli studi di matematica e filosofia per poi abbandonarli perché l’impulso a tornare nel suo Paese per difendere l’esistenza stessa di Israele superava ogni altra aspirazione.

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C’è un passaggio, in una lettera indirizzata alla sua compagna Bruria durante il periodo di Pasqua del 1975, in cui si capisce chiaramente quanto profondo sia l’attaccamento di Yoni a Israele e il suo legame con tutta l’eredità ebraica: «Ho sempre pensato che fosse la più bella tra le nostre feste. È un’antica celebrazione di libertà, migliaia di anni di libertà. Quando navigo indietro nei mari della nostra storia, percorro lunghi anni di sofferenza, di oppressione, di massacri, di ghetti, di espulsioni, di umiliazione; molti anni che, in una prospettiva storica, sembrano vuoti di ogni raggio di luce, eppure non è così. Perché il fatto che l’idea della libertà sia rimasta, che la speranza persisteva, che la fiamma della libertà continuava a bruciare attraverso l’osservanza di questa antica festa, è per me testimonianza dell’eternità della tensione verso la libertà e dell’idea di libertà in Israele. […] Il mio anelito verso il passato si mescola con il mio desiderio per te e, a causa tua, scendo nel mio passato e trovo il tempo e la voglia di ricordare per condividere la mia vita con te. E con “passato” non intendo soltanto il mio proprio passato, ma il modo in cui vedo me stesso: come una parte inseparabile, un anello della catena della nostra esistenza e dell’indipendenza di Israele.»

E lui, che si sente appunto un anello della catena dell’esistenza di Israele e del popolo ebraico, ritiene che il suo dovere morale, la sua chiamata sia quella per la difesa dello Stato ebraico. Scrive Yoni il 16 febbraio 1969: «[il nostro esercito] è l’unica cosa che si interpone tra noi e il massacro della nostra gente, come successo in passato. Il nostro Stato esiste e continuerà ad esistere finché riusciremo a difenderci. Sento che devo dare una mano.» Un giovane che avrebbe potuto essere qualsiasi cosa, che poteva avere davanti a sé una carriera splendida negli Stati Uniti, sceglie di tornare in uno dei luoghi più violenti e pericolosi al mondo, sceglie di vivere la difficile e poco remunerativa vita dell’esercito, per la necessità di abbracciare ciò in cui crede. Sceglie, con tutta la forza e la radicalità che questa parola implica, la propria strada.

Liberilibri, 8 ottobre 2023