Cerchiamo di farla semplice e per quanto possibile equilibrata, ma è una storia, tanto per cambiare, abbastanza scombiccherata: Zelensky, sul cui egocentrismo pensiamo di poterci sbilanciare senza timore di smentita, va a Sanremo in collegamento e tutti son contenti come se fosse risorto Enrico Caruso. Tutti, si capisce, a Sanremo: altrove no, altrove sono tante le cose che non si capiscono, la prima delle quali sta nel ruolo di mediatore di un giornalista, Bruno Vespa, cui Giorgia Meloni avrebbe dato via libera e addirittura carta bianca. Non esistono più le diplomazie, le cancellerie, i ministeri deputati? Sì, sapevamo, sappiamo che Vespa è uno di quelli dal grande potere in Rai e, per travaso, nei palazzi del potere, ma non potevamo sospettare fino a questo punto. Il che, francamente, crea una sorta di straniamento se non di disturbo, insomma siamo tenuti a prenderne atto ma, se è lecito, con un brivido di sfiducia verso istituzioni al massimo grado che, peraltro, manteniamo con le tasse, e sono istituzioni dai costi davvero paragonabili a quelli di una guerra.
Zelensky va a Sanremo, dunque. In collegamento. La sua strategia è chiara più o meno dall’inizio del conflitto, scaturito, questo non va mai dimenticato, dall’invasione russa al paese satellite: occupare la scena, far parlare di sé, attirare i media. All’inizio molti la ritenevano una strategia quasi disperata e comunque obbligata per non soccombere: una guerra esiste solo se il mondo se ne accorge e questo è il motivo per cui della Siria, dell’Afghanistan, dello stesso Iran non ci si occupa e preoccupa oltre. Col tempo, tuttavia, si è cominciato a capire, o almeno a sospettare, che non fosse lo Zelensky per l’Ucraina ma il contrario; che fosse un popolo, un paese, una nazione al servizio del suo capo, della sua spregiudicatezza, delle sue smanie protagonistiche che lo portano a moltiplicare warholianamente la sua presenza con smaccata preferenza per le occasioni mondane: copertine di rotocalchi glamour, festival del Cinema, delle canzonette, tornei sportivi, eventi singoli, a questo punto a Volodymyr mancano solo le palette di Ballando con le stelle. Un processo di autoesposizione che, ad un certo punto, ha cominciato a saturare, e che ha fatto cambiare idea a molti sostenitori della prima ora, i quali, senza necessariamente parteggiare per l’invasore (ce ne sono, ma è un altro paio di maniche), finiscono col bofonchiare: non me ne frega più niente, non ne posso più di vedere questo ex guitto pretendere ogni minuto qualcosa a bordo della sua maglietta dalla militaresca tinta. E si potrebbe anche tradurre con una domanda fastidiosa: ma Zelensky la guerra la combatte per il suo popolo o gliela fa combattere per se stesso?
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A livello di comunicazione, abbiamo assistito ad una oscillazione: in prima battuta lo sdegno verso la Russia era largamente maggioritario, così come, di conseguenza, la solidarietà per l’Ucraina; gradualmente una comunicazione russa molto aggressiva, e magari munifica, recepita in Italia da personaggi di svariata collocazione e in qualche caso risma, ha spostato il baricentro verso posizioni più sfumate; la dinamica resta chiara, c’è un invasore ed un invaso, ma la narrazione a senso unico, martellante e sempre più acritica in favore di Zelensky, ha contribuito a fomentare scetticismo e insofferenza in sempre più strati di una pubblica opinione già ampiamente esasperata per l’ortodossia sanitaria, che ha finito col tracciare un collegamento, fors’anche fin troppo facile, tra quest’ultima e il sostegno al presidente ucraino: percepito, questa come l’altra, nel segno della sostanziale menzogna da parte una informazione militante e non attendibile.
Stiamo riferendo di flussi e di percezioni, tenendo sempre presente che l’opinione pubblica ragiona più di pancia che di cervello e si informa più con l’istinto che con l’analisi. Non le si può però addebitare un sentimento di insofferenza per questo personaggio ormai cartoonizzato, che non si fa mancare neppure una svagata rassegna di pessime canzonette all’insegna del gender più efferato. A fare la differenza con guerre, presidenze e rivendicazioni del passato, sono i toni: mai, a memoria, avevamo assistito a tanta franca arroganza nel pretendere aiuti senza se e senza ma, senza fondo e senza fine. Richieste che si comprendono, che possono essere giustificate, ma espresse con una totale indifferenza alle ragioni di chi dovrebbe acconsentire, al limite della malagrazia. Zelensky si comporta come un dittatore fanciullo che pesta i piedi e ripete: “Vglio! Voglio! Voglio! E voi non potete dirmi di no”. Quello che vuole sono tranche da 40 miliardi alla volta, sordo alle condizioni critiche di paesi prostrati da crisi endemiche legate al decorso dell’emergenza pandemica, alla dipendenza energetica dal suo nemico-invasore, con conseguente impennata dei prezzi, ad una inflazione che minaccia di scatenarsi a livelli catastrofici.
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A Zelensky tutto questo non interessa, così come, si direbbe, non interessa l’idea stessa di una seppur pallida mediazione, a costo di trascinare tutti nel suo gioco micidiale: due giorni fa è arrivato a dire che “l’Italia deve considerarsi in guerra come e per l’Ucraina”. In nome di quale comando? Di quale potere reale? Lasciamo perdere qui le logiche e le dietrologie a sfondo geopolitico, l’opportunità o meno di trattare e fino a quale punto, il ruolo della Nato e degli Stati Uniti da una parte, della Cina dall’altra; così come la necessità per l’Occidente di mantenere il baluardo ucraino pena una reazione a catena che altrimenti lo perderebbe: tutte faccende ampiamente dibattute, sulle quali le opinioni saranno sempre divergenti, il che è normale, inevitabile e in un certo senso auspicabile. Qui ci limitiamo a registrare l’atteggiamento, mai riscontrato in passato, di un capo di stato che, nel bisogno atroce di una guerra, alza la voce con una tracotanza che sembra irreale tanto non trova spiegazioni. E lo fa ogni giorno. In ogni occasione. Nei contesti più stravaganti. Perfino al festival di Sanremo.
Qui casca l’ultima considerazione di questa stralunata faccenda: nel Sanremo piddino, pacifista e antimilitarista, grondante canzoncine a senso unico stonate da apprendisti cantanti idealmente avvolti nel bandierone della pace iridata, un presidente bellicista può presentarsi a rivendicare trenta o quaranta miliardi di armamenti. Per iniziativa della Rai, quanto a dire condivisa dal governo di destra e dall’opposizione di sinistra che la Rai la controlla. Una situazione a dir poco grottesca, che si farà di tutto per ignorare. Eppure la contraddizione rimane, clamorosa. C’è da scommettere che il dirottamento su tematiche distrattive, gender e climatiche, gossippare e legate a brani più o meno copiati, questa volta avrà da essere spietato come non mai. Ma, probabilmente, non ha torto chi obietta che, a prescindere da ogni altra considerazione, l’entrata a piedi uniti di Zelensky a Sanremo sarebbe stata meglio evitarla. Forse qualcuno non ha saputo o potuto dire di no: ma sono opzioni delle quali prima o poi ci si pente.
Max Del Papa, 27 gennaio 2023